E se ne andò, seguito dallo sguardo stupefatto dell’astronauta.
Prendila come vuoi, rifletté Roger, è stata veramente una scena spettacolosa. Si sentiva sgomento e compiaciuto. Anche tenendo conto che il 99 per cento era retorica, quel che restava era estremamente gratificante.
La porta si aprì ed entrò Sulie Carpenter, un po’ spaventata. Aveva in mano una foto incorniciata. — Non sapevo che avesse simili amicizie, — disse. — Questa la vuole?
Era una foto del presidente, con la dedica: «A Roger, dal suo ammiratore Dash.»
— Credo di sì, — disse Roger. — Può appenderla da qualche parte?
— È sempre possibile, quando si tratta di una foto di Dash, — rispose la donna. — Ha un marchingegno autoadesivo. Va bene qui? — Premette il ritratto contro la parete, vicino alla porta, e fece un passo indietro per ammirarla. Poi si girò, strizzò l’occhio e tirò fuori dal camice una macchina fotografica, nera e piatta, grande quanto un pacchetto di sigarette. — Guardi l’uccellino, — disse, e scattò. — Non mi farà la spia? Okay. Adesso devo andare… non sono in servizio, adesso, ma volevo venire a darle un’occhiata.
Roger si abbandonò sui cuscini e intrecciò le mani sul petto. Gli sviluppi della situazione erano piuttosto interessanti. Non aveva dimenticato la sofferenza interiore causata dalla scoperta della castrazione, e non aveva scacciato Dorrie dalla propria mente. Ma né l’una cosa né l’altra veniva più percepita come sofferenza. C’erano troppi pensieri nuovi e più piacevoli.
Pensare a Dorrie gli fece ricordare il dono che lei gli aveva inviato. Aprì il pacco. Conteneva una coppa di ceramica dai colori del grano, ornata da una cornucopia di frutti. Il biglietto diceva: «Questo è un modo per dirti che ti amo». Era firmato Dorrie.
Tutti i dati relativi a Torraway adesso erano stabili, e noi ci stavamo preparando a mettere in fase i circuiti mediatori.
Questa volta Roger venne debitamente informato. Brad era sempre con lui… dopo essersi preso una parte delle sfuriate del presidente, era tutto serietà e diligenza. Incaricammo una squadra di sovrintendere alla mesa in fase dei circuiti mediatori, e un’altra di occuparsi dello scambio di dati tra il 3070 di Tonka e il nuovo computer portatile che si trovava a Rochester, nello Stato di New York. Il Texas e l’Oklahoma, proprio allora, stavano attraversando uno dei loro brownouts periodici, il che complicava tutte le manipolazioni dei dati; e gli esseri umani dello staff erano ancora afflitti dai postumi dell’influenza. Eravamo decisamente a corto di effettivi.
E poi, ci occorreva ben altro. Il computer portatile era classificato attendibile al 99,999999999 per cento in ogni suo componente, ma aveva qualcosa come 10 8componenti. C’erano rinforzi adeguati, e una intera panoplia di circuiti a cross-input : e anche se tre o quattro subsistemi principali avessero fatto cilecca, sarebbe rimasta comunque un’efficienza adeguata per permettere a Roger di tirare avanti. Ma non bastava. Le analisi indicavano che c’era una possibilità su dieci di un guasto critico entro un mezzo anno marziano.
Perciò venne presa la decisione di costruire, lanciare e mettere in orbita intorno a Marte un 3070 di grandezza regolare, riproducendo in triplicato tutte le funzioni del computer portatile. Non sarebbe stato utile quanto il portatile. Se questi si fosse guastato totalmente, Roger avrebbe avuto l’uso dell’ orbiter solo per il cinquanta per cento del tempo… quando l’orbita lo portava al di sopra dell’orizzonte e gli permetteva di collegarsi con lui via radio. Nella peggiore delle ipotesi vi sarebbe stato un ritardo di un centesimo di secondo, ed era tollerabile. Inoltre, Roger avrebbe dovuto rimanere all’aperto, oppure mantenere il collegamento per mezzo di un’antenna esterna.
C’era un’altra ragione che giustificava l’orbiter di appoggio: era l’alto rischio di interferenze. Tanto il 3070 in orbita che il portatile erano pesantemente schermati. Tuttavia, al lancio, dovevano attraversare le fasce di Van Allen, e per tutto il volo sarebbero stati investiti dal vento solare. Quando fossero giunti nelle vicinanze di Marte, il vento solare si sarebbe ridotto a un livello abbastanza basso da venir considerato sopportabile… tranne nel caso di eruzioni. Le particelle cariche di un’eruzione solare potevano facilmente scombinare un numero sufficiente di dati, in uno dei due computer, da danneggiarne le funzioni in modo critico. Il portatile a zaino non sarebbe stato in grado di difendersi. Il 3070, d’altra parte, aveva una capacità di riserva sufficiente per continuare la sorveglianza e le riparazioni interne. Nei momenti d’ozio — e ve ne sarebbero stati molti, per il 90 per cento delle sue funzioni, anche quando lo avrebbe usato Roger — avrebbe comparato i dati in ciascuna delle sue triplici organizzazioni. Se un dato differiva dal dato corrispondente dell’altra organizzazione, controllava la compatibilità rispetto agli altri dati: se tutti i dati erano compatibili, esaminava tutte e tre le organizzazioni e faceva in modo che il bit aberrante si conformasse agli altri due. Se gli aberranti erano due, controllava con il computer portatile, se era possibile.
Era tutta la ridondanza che potevamo permetterci: ma era già tanto. In complesso, eravamo molto soddisfatti.
Certo, il 3070 orbitante avrebbe richiesto parecchia energia. Calcolammo il probabile assorbimento massimo in confronto al peggior caso probabile di rifornimento, garantito da ogni possibile serie ragionevole di pannelli solari, e concludemmo che il margine era troppo scarso. Perciò Raytheon ricevette l’ordinazione urgente per uno dei suoi generatori MHD, e delle squadre si misero al lavoro per modificarlo e metterlo in grado di sopportare il lancio e di funzionare automaticamente in orbita intorno a Marte. Quando il 3070 e il generatore MHD fossero arrivati in orbita, si sarebbero collegati tra loro. Il generatore avrebbe fornito tutta l’energia necessaria al computer, pur serbandone una quantità sufficiente per trasmettere a mezzo di microonde il surplus utile a Roger, sulla superficie di Marte: ed egli avrebbe potuto servirsene sia per alimentare nel modo più opportuno le proprie parti meccaniche, sia per tutto l’equipaggiamento a energia che intendesse installare.
Non appena completammo tutti i piani, non riuscimmo a capire come avevamo potuto pensare di farne a meno, all’inizio. Quelli furono giorni felici. Noi chiedevamo, e ricevevamo tutto il necessario, tutti i rinforzi che ci occorrevano. Tulsa rimase senza illuminazione, per due notti la settimana, perché noi potessimo disporre delle riserve d’energia indispensabili, e i Jet Propulsion Laboratories furono costretti a cedere al nostro progetto l’intero staff di specialisti di medicina spaziale.
La trasmissione dei dati procedeva. Parecchie interferenze si inseguivano allegramente nei due nuovi computer, il portatile di Rochester e il 3070 duplicato che era stato spedito in tutta fretta a Merrit Island. Ma noi le identificammo, le isolammo, le correggemmo, e senza sgarrare dalla tabella di marcia.
Fuori, naturalmente, il mondo non era altrettanto idilliaco.
Servendosi di una bomba al plutonio fabbricata artigianalmente con il materiale rubato al reattore autofertilizzante di Carmarthen, i nazionalisti gallesi avevano fatto saltare la caserma di Hyde Park e quasi tutto Knightsbridge. In California, le Cascade Mountains erano divorate da fiamme incontrollabili: gli elicotteri del servizio antincendio non potevano alzarsi in volo per mancanza di carburante. Una terribile epidemia di vaiolo aveva spopolato Poona e a Bombay era già sfuggita ai tentativi di arginarla; altri casi vennero segnalati da Madras a Delhi, via via che quanti erano in buone condizioni fuggivano per sottrarsi all’epidemia. Gli australiani avevano ordinato la mobilitazione generale, la Nuova Asia Popolare aveva chiesto una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e Città del Capo era in stato d’assedio.
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