E non era un’infermiera. Sulie Carpenter era stata una delle prime donne specializzate in medicina aerospaziale. Aveva una laurea in medicina, si era specializzata in psicoterapia, anzi in tutta la miriade di eclettiche discipline psichiatriche, e poi era entrata nel programma spaziale perché le sembrava che sulla Terra non vi fosse nulla cui valesse la pena di dedicarsi. Dopo aver completato l’addestramento astronautico, aveva cominciato a chiedersi se anche nello spazio c’era qualcosa che valesse la pena di fare. La ricerca le era sembrata degna di attenzione, almeno da un punto di vista astratto; aveva fatto domanda per lavorare con le équipe di studio della California ed era stata accettata. Nella sua vita c’era stato un discreto numero di uomini: e uno o due di essi avevano avuto qualche importanza. Ma non era durata con nessuno. Ciò che aveva raccontato a Roger in proposito era quasi tutto vero; e dopo il più recente, bruciante fallimento, aveva ridotto il suo campo d’interessi in attesa di diventare abbastanza adulta per capire cosa voleva da un uomo. Ed era rimasta lì, appartata in un circolo chiuso, lontana dalla grande corrente principale dei sentimenti umani, fino a quando noi estraemmo la sua scheda tra varie centinaia di migliaia, per sopperire alle esigenze di Roger.
Quando le erano arrivati gli ordini, del tutto inaspettatamente, si trattava di ordini impartiti dal presidente in persona. Non aveva avuto la possibilità di rifiutare l’incarico: del resto, non voleva affatto rifiutarlo. Accolse con soddisfazione quel cambiamento. L’idea di fare da chioccia a un essere umano sofferente aveva colpito i centri della sua personalità: l’importanza della missione le appariva evidente, perché se mai credeva in qualcosa, quel qualcosa era il progetto Marte; e sapeva benissimo di essere all’altezza. Era estremamente competente. Noi le attribuivamo una grande importanza: era uno dei pezzi principali del gioco che stavamo giocando per la sopravvivenza della razza.
Quando Sulie Carpenter finì di occuparsi della simulazione di Roger erano quasi le quattro del mattino.
Dormì un paio d’ore su un letto nell’alloggio delle infermiere. Poi fece la doccia, si vestì e mise le lenti a contatto verdi. Non era entusiasta di quel particolare aspetto del suo lavoro, pensò mentre si avviava verso la stanza di Roger. I capelli tinti e il cambiamento del colore degli occhi erano inganni: e a lei non piaceva ingannare. Un giorno le sarebbe piaciuto non mettere le lenti a contatto e lasciare che i suoi capelli tornassero al biondoscuro naturale… oh, magari un po’ migliorati con un cachet, certo: non le dispiaceva ricorrere a qualche artificio, ma non le andava di fingere d’essere ciò che non era.
Ma quando entrò nella stanza di Roger, Sulie sorrideva: — Sono felice che tu sia tornato. Ci sei mancato molto. Che effetto ti ha fatto, andartene in giro tutto solo?
— Niente male, — disse la voce inespressiva. Roger era in piedi accanto alla finestra, e guardava i grumi di tumbleweed che rotolavano e rimbalzavano sullo spiazzo del parcheggio. Si voltò verso di lei. — Sai, è tutto vero, quello che mi avevi detto. Quello che ho adesso non è solo diverso: è migliore.
Sulie resistette alla tentazione di confermare le parole di Roger, e si limitò a sorridere, cominciando a disfare il letto. — Ero preoccupato per il problema sessuale, — continuò lui. — Ma sai una cosa, Sulie? È come se mi avessero detto che per un paio d’anni non potrò mangiar caviale. Il caviale non mi piace. E a ben pensarci, adesso non voglio neanche il sesso. Immagino che sia stata tu a inserire questo particolare nel computer? «Togliere l’impulso sessuale, aumentare l’euforia»? Comunque, nel mio cervello di gallina si è fatta luce finalmente la rivelazione che mi complicavo l’esistenza, chiedendomi come avrei fatto a tirare avanti senza qualcosa che in realtà non volevo neppure. È un riflesso di quello che, secondo me, gli altri pensano che io voglia.
— Acculturazione, — commentò Sulie.
— Senza dubbio, — disse Roger. — Senti, voglio fare qualcosa per te.
Prese la chitarra, si puntellò contro l’intelaiatura della finestra, con un calcagno contro il davanzale, e si piazzò lo strumento sul ginocchio. Le ali si ridisposero silenziosamente sopra la sua testa, mentre cominciava a suonare.
Sulie rimase sbalordita. Roger non si limitava a suonare: cantava, anche. Cantare? No, era un suono come se un uomo fischiettasse tra i denti, un suono debole ma puro. Le dita strimpellavano e pizzicavano un accompagnamento mentre il fischio acuto che gli usciva dalle labbra fluiva nella melodia di un brano che lei non aveva mai udito.
Quando Roger ebbe finito, Sulie domandò: — Che cos’era?
— È una sonata di Paganini per chitarra e violino, — rispose il cyborg, orgogliosamente. — Clara mi ha regalato la registrazione.
— Non sapevo che fossi in grado di fare questo. Canterellare, voglio dire… o quel che è.
— Non lo sapevo neppure io, prima di provare. Non riesco ad avere il volume necessario per la parte del violino, naturalmente. E non riesco a tenere il suono della chitarra abbastanza basso per controbilanciarlo, ma non era male, vero?
— Roger, — disse lei, sinceramente, — sono sbalordita.
Roger alzò la testa e la sbalordì di nuovo, riuscendo a sorridere. Disse: — Scommetto che non sapevi neppure che posso far questo. Non lo sapevo neanch’io, fino a quando ho provato.
Alla riunione, Sulie disse seccamente: — È pronto, generale.
Scanyon era riuscito a dormire abbastanza per apparire riposato, e aveva attinto a qualcosa d’altro, forse alle sue risorse interiori, in modo da apparire meno stravolto. — Ne è sicura, maggiore Carpenter?
Sulie annuì. — Non sarà mai più pronto di così. — Esitò. Vern Scanyon, leggendo la sua espressione, attese la rettifica. — Il problema, secondo me, è che Roger è pronto a partire adesso. Tutti i suoi sistemi sono a livello operativo. Ha superato la questione con la moglie. È pronto. Ma più a lungo rimarrà qui, e più è probabile che sua moglie combini qualcosa e alteri l’equilibrio.
— Ne dubito molto, — disse Scanyon, aggrottando la fronte.
— Beh, quella donna sa in che guaio andrebbe a cacciarsi. Ma non voglio correre questo rischio. Voglio che Roger se ne vada.
— Vuol dire portarlo a Merritt Island?
— No. Voglio metterlo in attesa.
Brad rovesciò un po’ di caffè dalla tazza che si stava accostando alle labbra. — Neppure per sogno, carina! — gridò, sinceramente sconvolto. — Ho ancora settantadue ore di controlli e di collaudi dei suoi sistemi! Se tu me lo rallenti, non posso ottenere le letture…
— Collaudare che cosa, dottor Bradley? La sua efficienza operativa? Oppure stai pensando ai saggi che intendi scrivere su di lui?
— Beh… Cristo, certo che voglio scriverli! Ma voglio anche controllarlo con la massima meticolosità possibile, fino all’ultimo minuto, nel suo stesso interesse. E nell’interesse della missione.
Sulie si strinse nelle spalle. — Comunque, il mio consiglio è questo. Roger qui non ha altro da fare che aspettare. E ne ha già avuto abbastanza.
— E se su Marte qualcosa non funzionasse? — domandò Brad. Lei rispose: — Volevi il mio parere. Lo hai sentito.
Scanyon intervenne. — Per favore, fate in modo che riusciamo tutti a capire di cosa state parlando. Io, soprattutto.
Sulie diede un’occhiata a Brad, che disse: — Avevamo progettato di farlo per il viaggio, generale, come lei sa. Abbiamo la facoltà di dominare i suoi orologi interni per mezzo della mediazione esterna dei computer. Mancano… vediamo, cinque giorni e qualche ora al lancio: possiamo rallentare Roger, in modo che per il suo tempo soggettivo siano solo trenta minuti. È una proposta sensata… ma anche quello che ho detto io è sensato, e non posso assumermi la responsabilità di lasciarlo sfuggire al mio controllo prima di aver ultimato tutti i test che io intendo compiere.
Читать дальше