Il presidente degli Stati Uniti fu l’ultimo a notare i cambiamenti: era troppo occupato a causa dei disastri interni di una nazione che si era sovrappopolata e aveva speso troppo, precipitando nella tragedia. Ma venne il momento in cui si accorse che il cambiamento c’era stato, non soltanto negli Stati Uniti ma in tutto il mondo; e non era solo un cambiamento di umori, ma anche di tattica. Gli asiatici ritirarono i sommergibili nucleari dalle acque del Pacifico occidentale e dell’oceano Indiano, e quando Dash ricevette la conferma, prese il telefono e chiamò Vern Scanyon.
— Credo… — Si interruppe e allungò la mano per toccare il legno lucido della scrivania. — Credo che funzioni. Dia una pacca sulle spalle ai suoi collaboratori, a nome mio. E adesso, le occorre qualcosa.
Ma non c’era bisogno di nulla.
Ormai eravamo completamente impegnati. Ci eravamo spinti fin dove potevamo, e il resto spettava alla spedizione.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
MISSIONARIO PER MARTE
Don Kayman si concedeva di pregare non più di sei volte al giorno. Pregava per chiedere varie cose — talvolta di non dover più sentire Titus Hesburgh che si succhiava i denti, talvolta di non essere più infastidito dall’odore dei peti che appestavano l’interno della tuta spaziale — ma ogni preghiera comprendeva sempre tre invocazioni: la riuscita della missione, la realizzazione del piano provvidenziale per l’umanità e, in particolare, ogni bene per il suo amico Roger Torraway.
Roger aveva il privilegio di una cabina personale. Non era gran cosa, e l’intimità era assicurata soltanto da una tenda elastica, sottile come un velo e non molto opaca: ma era tutta sua. Gli altri tre si dividevano la cabina dell’equipaggio. Qualche volta la divideva con loro anche Roger: o almeno, la dividevano alcuni pezzi di Roger. Era sparso un po’ dappertutto, Roger.
Kayman andava spesso a dargli un’occhiata. Per lui il viaggio era lungo e noioso. La sua specializzazione, che naturalmente non sarebbe servita a niente fino a quando avessero messo piede sulla superficie di Marte, non richiedeva aggiornamenti né esercizi. L’areologia era una scienza statica, e tale sarebbe rimasta fino a quando egli stesso, come sperava, avesse potuto arricchirla dopo lo sbarco. Perciò aveva lasciato che Titus Hesburgh gli insegnasse a conoscere il quadro degli strumenti, e più tardi aveva lasciato che Brad gli insegnasse un po’ a smontare un cyborg. La forma grottesca che si contorceva lentamente nel bozzolo di gommapiuma non era più estranea. Kayman la conosceva centimetro per centimetro, di dentro e di fuori. Via via che trascorrevano le settimane, egli perse la ripugnanza che l’aveva trattenuto dallo svellere un occhio dall’orbita o dall’aprire un pannello nelle viscere rivestite di plastica.
Non aveva solo questo, da fare. Aveva i nastri di musica da ascoltare, qualche microfiche da leggere, e partite da giocare. A scacchi, lui e Titus Hesburgh più o meno si equivalevano. Giocavano tornei interminabili, al meglio delle 75 partite, e si servivano del tempo loro riservato per le comunicazioni personali, facendosi trasmettere dalla Terra testi sugli scacchi. Padre Kayman avrebbe trovato una maggiore serenità se avesse pregato di più, ma dopo la prima settimana aveva pensato che si poteva esagerare anche con le preghiere. Quindi le razionò: al risveglio, prima dei pasti, a metà serata, e poi prima di addormentarsi. E questo era tutto. Naturalmente, non erano inclusi in questa serie la rapida elevazione ottenuta recitando un Paternoster o il rosario di Sua Santità. Poi, Kayman ritornava all’interminabile lavoro di risistemazione di Roger. Si sentiva quasi sempre lo stomaco sconvolto, ma era chiaro che Roger era ignaro di quelle invasioni della sua persona e non ne soffriva. Poco a poco, Kayman imparò ad apprezzare la bellezza dell’anatomia interna del cyborg: sia quella parte che era opera dell’Uomo, sia quella che era opera di Dio. Ed egli rendeva grazie per entrambe.
Ma non se la sentiva di rendere grazie per ciò che Dio e l’uomo avevano fatto alla mente di Roger. Lo turbava il pensiero che alla vita del suo amico venissero rubati sette mesi; e lo impietosiva il fatto che l’amore di Roger andasse ad una donna che lo teneva in scarsissimo conto.
Ma tutto considerato, Kayman era felice.
Non aveva mai partecipato a una missione su Marte: tuttavia quello era il suo posto. Era stato altre due volte nello spazio: una corsa con una navetta fino a una stazione orbitale, quando era ancora uno studente laureato che aspirava a un dottorato in planetologia; e poi un giro di novanta giorni a bordo della Stazione Spaziale Betty. L’una e l’altra esperienza erano state soltanto esercitazioni in vista della missione che avrebbe completato il suo studio su Marte.
Tutto ciò che egli sapeva di Marte lo aveva appreso per mezzo di un telescopio o per deduzione o in base alle osservazioni altrui. Le conosceva molto bene. Aveva esaminato e riesaminato più volte ì nastri sinottici di tutti gli Orbiter, i Mariner e i Surveyor. Aveva analizzato i campioni di suolo e di roccia portati sulla Terra. Aveva interrogato tutti gli americani, i francesi e gli inglesi che erano scesi su Marte, e anche molti dei russi, giapponesi e cinesi.
Sapeva tutto di Marte. Aveva sempre saputo tutto.
Da bambino era cresciuto sul pianeta Marte di Edgar Rice Burroughs, il colorito Barsoom dai fondi oceanici morti e color ocra e dalle minuscole lune velocissime. Crescendo, aveva imparato a distinguere la realtà dalla finzione. Non c’era niente di reale nei guerrieri verdi a quattro braccia e nelle bellissime principesse marziane che avevano la pelle rossa e deponevano uova… almeno nella misura in cui la scienza era in contatto con la «realtà». Ma egli sapeva che l’opinione degli scienziati sulla «realtà» cambiavano da un anno all’altro. Burroughs non aveva tratto Barsoom esclusivamente dalla propria immaginazione. L’aveva tratto, quasi parola per parola, dalla «realtà» scientifica più autorevole dei suoi tempi. Era il Marte di Percival Lowell, non quello di Burroughs, che era stato smentito dai telescopi più grandi e dalle sonde spaziali. Nella «realtà» dell’opinione scientifica, la vita su Marte era nata e morta una dozzina di volte.
Ma anche tale questione non era mai stata veramente risolta. Dipendeva da un problema filosofico. Che cos’era la «vita»? Indicava necessariamente un essere simile a una scimmia o a una quercia? Indicava per forza di cose un essere che scioglieva le sue sostanze nutrienti in una biologia basata sull’acqua, partecipava al ciclo del trasferimento di energia per ossidazione e riduzione, si riproduceva e perciò cresceva dall’ambiente? Don Kayman non la pensava così. Giudicava presuntuoso limitare la «vita» in modo tanto campanilistico, e si sentiva molto umile di fronte alla maestà onnipotente del Creatore.
Comunque, la questione di una vita geneticamente affine a quella terrestre era ancora aperta. O almeno, non del tutto chiusa. Certo, non si erano trovate né scimmie né querce. Neppure un lichene. Neppure una cellula vivente. E neppure (era costretto a confessarlo con rammarico, perché Dejah Thoris non voleva saperne di morire, dentro al suo cuore) i prerequisiti indispensabili come l’ossigeno libero e l’acqua.
Ma Kayman non ammetteva che, siccome nessuno era scivolato su una distesa di muschi marziani, questi non esistessero in nessuna parte del pianeta. Su Marte avevano posto piede meno di cento esseri umani. Sommata insieme, l’area delle loro esplorazioni non superava alcune centinaia di miglia quadrate. Su Marte, dove non esistevano oceani, e la superficie della terraferma da esplorare era quindi maggiore di quella della Terra! Era un po’ come pretendere di conoscere la Terra compiendo quattro rapidi viaggi nel Sahara, sulle cime dell’Himalaia, nell’Antartide e sulla calotta polare della Groenlandia…
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