Scostò la tenda e guardò fuori, e a salutarlo c’era la faccia sorridente dell’amante di sua moglie: — Buongiorno, Roger! Lieto di riaverti con noi.
… E diciotto minuti dopo, dodici per la trasmissione del messaggio attraverso lo spazio e il resto per la decifrazione e il collegamento, il presidente assistette alla scena, a più di centosessanta milioni di chilometri di distanza, sullo schermo, nella Sala Ovale.
Non era l’unico a vederla. Le reti televisive mandarono in onda la scena, e i satelliti la ritrasmisero in tutto il mondo. La videro nel Palazzo di Pechino, e al Cremlino; a Downing Street e all’Eliseo e a Ginza.
— Figlio di puttana, — fu la frase storica di Dash. — Ce l’hanno fatta.
Vern Scanyon era con lui. — Figlio di puttana, — gli fece eco. Poi disse: — Beh, quasi fatta. Devono ancora atterrare.
— C’è qualche problema per questo?
Cautamente: — No, a quanto mi risulta…
— Dio, — affermò sicuro il presidente, — non può essere così ingiusto. Adesso io e lei faremmo bene a berci un goccetto di bourbon; era ora.
Rimasero ad assistere alla trasmissione per mezz’ora, e per un quarto di bottiglia. Di tanto in tanto, nei giorni seguenti, videro dell’altro, loro ed il resto del mondo. Il mondo intero vide Hesburgh effettuare i controlli finali e preparare il modulo marziano per lo sganciamento. Videro Don Kayman collaudare le manovre sotto l’osservazione meticolosa del pilota, poiché sarebbe stato ai comandi per la discesa, una volta lasciata l’orbita. Videro Brad effettuare un ultimo riesame della telemetria di Roger, riscontrare che tutto funzionava per il meglio, e poi ripetere tutto il controllo ancora una volta. Videro Roger aggirarsi nella cabina dell’equipaggio e infilarsi nel modulo.
E videro il modulo sganciarsi ed Hesburgh guardare malinconicamente il bagliore che cominciava a scendere dall’orbita.
Calcolammo che tre miliardi e mezzo di persone assistettero all’atterraggio. Non c’era molto da vedere: se avete visto un atterraggio li avete visti tutti. Ma questo era importante.
Cominciò alle quattro meno un quarto del mattino, fuso orario di Washington; e il presidente si era fatto svegliare apposta. — Quel prete, — disse, accigliandosi, — che razza di pilota è? Se va male qualcosa…
— Ha seguito i corsi, signore, — lo tranquillizzò il suo aiutante per la NASA. — Comunque, in realtà è solo una sorta di riserva. È la sequenza automatica ad avere il comando primario. Se qualcosa non va, il generale Hesburgh segue tutto dall’astronave in orbita e può intervenire prendendo i telecomandi. Padre Kayman non deve fare niente, a meno che tutto vada male contemporaneamente.
Dash scrollò le spalle, e l’aiutante notò che il presidente teneva le dita incrociate in atto di scongiuro. — E i voli successivi? — chiese, fissando lo schermo.
— Nessuna preoccupazione, signore. Il computer si inserirà nell’orbita marziana fra trentadue giorni, e il generatore ventisette giorni più tardi. Non appena il modulo toccherà la superficie, il generale Hesburgh effettuerà una correzione di rotta e supererà la luna Deimos. Contiamo di far scendere il computer e il generatore, probabilmente nel cratere Voltaire: Hesburgh deciderà per noi.
— Uhm, — fece il presidente. — Hanno detto a Roger chi c’è a bordo dell’astronave del generatore?
— No, signore.
— Uhm. — Il presidente abbandonò il teleschermo e si alzò. Andò alla finestra e, guardando il bel prato della Casa Bianca, verdeggiante e fiorito nel mese di giugno, disse: — C’è un tale che arriva dal centro computer di Alexandria. Vorrei che lei fosse presente, quando verrà qui.
— Sì, signore.
— Il comandante Chiaroso. Dovrebbe sapere il fatto suo. Era professore al M.I.T. Dice che c’è qualcosa di strano nelle nostre proiezioni sull’intero progetto. Lei ha sentito dire qualcosa in proposito?
— No, signore, — disse l’aiutante per la NASA, allarmato. — Strano, signore?
Dash alzò le spalle. — Non mi mancherebbe altro che questo, — disse, — mettere in piedi questa maledetta faccenda e poi scoprire… Ehi! cosa diavolo succede?
Sul teleschermo l’immagine sobbalzò e si spezzò; sparì completamente, si ricostituì e tornò a sparire, lasciando soltanto le tracce delle righe.
— Niente di grave, signore, — si affrettò a tranquillizzarlo l’aiutante. — È l’impatto del rientro. Quando penetrano nell’atmosfera perdono il contatto video. Anche la telemetria ne risente, ma hanno un ampio margine: è tutto regolare.
Il presidente domandò: — Ma perché diavolo succede? Credevo che metà dei problemi derivassero dal fatto che Marte non ha atmosfera!
— Non ne ha molta, signore. Ma un po’ sì, e poiché è più piccolo ha anche una gravità inferiore. L’atmosfera superiore è densa all’incirca quanto quella della Terra alla stessa altitudine, ed è lì che si verifica l’impatto.
— Stramaledizione! — ringhiò il presidente. — Queste sorprese non mi piacciono! Perché qualcuno non mi aveva avvertito?
— Ecco, signore…
— Lasci perdere! Ne riparleremo più tardi. Spero che fare la sorpresa a Torraway non sia un errore… Beh, non pensiamoci più. Adesso cosa succede?
L’aiutante non guardava lo schermo, bensì il proprio orologio. — Apertura del paracadute, signore. Hanno completato l’accensione dei retrorazzi. Adesso si tratta solo di scendere. Tra pochi secondi… — L’aiutante indicò lo schermo che, obbediente, formò di nuovo un’immagine. — Ecco. Adesso sono in fase di discesa controllata.
Sedettero e attesero, mentre il modulo scendeva nella sottile atmosfera marziana, sotto l’immenso baldacchino, cinque volte più grande di un paracadute costruito per l’aria terrestre.
Quando toccò la superficie, il suono giunse da centosessanta milioni di chilometri, e sembrò quello di alcuni bidoni della spazzatura che cadessero da un tetto. Ma il modulo era stato costruito apposta; e i membri dell’equipaggio erano già da un pezzo chiusi nei loro bozzoli protettivi.
Dallo schermo uscì un sibilo e il cigolio del metallo che si raffreddava.
E poi la voce di Brad. — Siamo su Marte, — disse in tono di preghiera. E padre Kayman cominciò a mormorare le parole tratte dall’ordinale della Messa: — Laudamus te, benedicimus te, adoramus te, glorificamus te. Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis.
E a queste parole abituali aggiunse: — Et in Marte.
CAPITOLO QUINDICESIMO
COME LA BUONA NOVELLA GIUNSE DA MARTE ALLA TERRA
Appena ci rendemmo conto del grave rischio che una grande guerra distruggesse la civiltà e rendesse inabitabile la Terra — cioè, poco dopo che collettivamente cominciammo a renderci conto di qualcosa — decidemmo di prendere provvedimenti per colonizzare Marte.
Non era facile, per noi.
L’intera razza umana era nei guai. L’energia scarseggiava in tutto il mondo, e questo significava che i fertilizzanti costavano cari, che la gente soffriva la fame, e che si creavano tensioni pericolosamente esplosive. Le risorse mondiali bastavano appena a tenere in vita miliardi di persone. Dovevamo trovare qualche mezzo per stornare delle disponibilità disperatamente necessarie altrove, per preparare piani a lungo termine. Organizzammo tre gruppi distinti con il compito di pensare alle soluzioni e assicurammo loro tutti i mezzi che potevamo sottrarre alle esigenze quotidiane. Uno dei gruppi esplorava le possibilità di risolvere le tensioni sempre crescenti sulla Terra. Uno era incaricato di preparare rifugi sulla Terra stessa, in modo che, anche se fosse scoppiata una guerra termonucleare, una piccola percentuale della nostra razza potesse sopravvivere.
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