Frederik Pohl - Uomo più

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Questo nuovo romanzo di Frederik Pohl ci presenta il primo tentativo di colonizzazione del pianeta Marte: non il Marte sognato dalla fantascienza di cinquant’anni fa, ma il Marte che oggi conosciamo attraverso i risultati trasmessi dalle sonde spaziali.
Il protagonista della colonizzazione è Uomo Più: l’uomo più gli ausili che gli possono offrire i computer, e il protagonista del romanzo è il primo di questi uomini. Macchine sofisticate collegate al suo corpo hanno sostituito i suoi organi con altri organi artificiali, ed egli è ora adatto a vivere nell’atmosfera rarefatta di Marte, a trarre dal sole l’energia che gli occorre. Ma i suoi ex simili, le persone umane normali, non lo riconoscono più come uno di loro, e Marte, considerato come un’avventura e un episodio, si rivela il suo esilio e la sua casa.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e Locus in 1977.

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Quando fu tutto compiuto, le équipes di protesiologi e di chirurghi cominciarono a fare cose che non erano mai state fatte a nessun altro essere umano. L’intero sistema nervoso di Torraway venne revisionato, e tutti i canali principali furono collegati a strumenti che portavano al grande computer, nel sotterraneo. Era un IBM 3070 tuttofare. Occupava la metà di una sala e non bastava ancora per svolgere tutti i compiti necessari. Era soltanto un collegamento temporaneo. A duemila miglia di distanza, nello Stato di New York, lo stabilimento dell’IBM stava realizzando un computer specializzato, così piccolo da stare in uno zaino. La progettazione era stata la parte più difficile del progetto: continuammo a revisionare i circuiti persino quando venivano montati sui banchi. Lo zaino non poteva superare i trentasei chili, peso terrestre. Le dimensioni massime non potevano superare i cinquanta centimetri. E doveva funzionare grazie a batterie a corrente continua che venivano caricate in continuazione per mezzo di pannelli solari.

I pannelli solari, all’inizio, avevano costituito un problema: ma lo risolvemmo in modo piuttosto elegante. Richiedevano un’area superficiale minima di tre metri quadrati. L’area superficiale del corpo di Roger, anche dopo essere stata modificata da varie aggiunte, non sarebbe bastata neppure se avesse potuto accettare subito la luce solare piuttosto debole di Marte. Risolvemmo il problema progettando due grandi ali lievi, fatate. — Roger sembrerà Oberon, — disse allegramente Brad, quando vide i disegni. — O un pipistrello, — borbottò Kathleen Doughty.

In effetti, sembravano ali di pipistrello, perché erano nere come il giaietto. Non sarebbero servite per volare, neppure in un’atmosfera abbastanza densa, se Marte l’avesse avuta. Erano fatte di una pellicola sottile, e avevano scarsa forza strutturale. Ma non erano destinate a volare, né a portare pesi. Dovevano soltanto schiudersi automaticamente, orientandosi per ricevere tutte le radiazioni del sole. In un secondo tempo, il modello fu cambiato, in modo che Roger potesse controllare le ali e usarle come un funambolo usa il bastone, per tenersi in equilibrio. Nel complesso, rappresentavano un immenso miglioramento rispetto alle «orecchie» che avevamo messo a Willy Hartnett.

Le ali solari furono progettate e realizzate in otto giorni: quando le spalle di Roger furono pronte a riceverle, le ali erano pronte per venir fissate. La pelle, ormai, era ordinaria amministrazione. Ne avevano usata già tanta con Willy Hartnett, sia come dotazione originale che come pezzi di ricambio per le parti lesionate o per i cambiamenti di modello via via che il progetto si sviluppava, che i nuovi innesti venivano impiantati sul corpo di Roger con la stessa rapidità con cui i chirurghi gli asportavano l’epidermide naturale.

Di tanto in tanto Roger Torraway si svegliava e si guardava intorno: e sembrava capire e riconoscere ciò che vedeva. I suoi visitatori — un afflusso continuo — qualche volta gli parlavano, qualche volta venivano semplicemente a guardarlo come un campione da laboratorio, da discutere e manipolare senza riguardi personali, quasi fosse una provetta per titolazione. Vern Scanyon andava da lui quasi ogni giorno, e guardava la creazione in atto con un’aria di crescente ripugnanza. — Ha un aspetto orribile, — borbottò. — Ai contribuenti non andrebbe a genio!

— Attento, generale, — ringhiò Kathleen Doughty, interponendo la sua figura enorme tra il direttore e il soggetto. — Come può essere certo che lui non possa sentirla?

Scanyon alzò le spalle e se ne andò per fare il suo rapporto alla segreteria del presidente. Don Kayman entrò mentre il generale usciva. — Grazie, madre di tutto il mondo, — disse in tono serio. — Ti sono grato dell’interesse per il mio amico Roger.

— Già, — rispose irritata Kathleen Doughty. — Ma non è sentimentalismo. Questo poveraccio deve avere un po’ di fiducia in se stesso. Ne avrà bisogno. Sai con quanti amputati e paraplegici ho lavorato? E sai quanti erano stati considerati irrimediabili, condannati a non poter più camminare o muovere un muscolo e neppure ad andare al gabinetto da soli? È tutta questione di forza di volontà, Don, e per averla bisogna credere in se stessi.

Kayman aggrottò la fronte: aveva ancora la mente presa dallo stato d’animo di Roger. — Vorresti contraddirmi? — chiese brusca Kathleen, interpretando quel gesto in modo errato.

— No, affatto! Voglio dire… sii ragionevole, Kathleen: ti sembro proprio io, il tipo capace di contestare la trascendenza dello spirituale rispetto al materiale? Ti sono soltanto riconoscente. Tu sei buona, Kathleen.

— Oh, scemenze, — borbottò lei, serrando le labbra sulla sigaretta. — Mi pagano per questo. E inoltre, — aggiunse, — immagino che tu non sia ancora stato nel tuo ufficio, oggi. C’è un comunicato solenne per tutti di Sua Stellarità il Generale, perché non dimentichiamo l’importanza di ciò che stiamo facendo… e con il delicato accenno che, se facciamo saltare la data del lancio, finiremo tutti in campo di concentramento.

— Come se fosse necessario rammentarcelo, — sospirò padre Kayman, guardando la grottesca figura immota di Roger. — Scanyon è in gamba, ma è portato a credere che tutto quanto fa lui costituisca il fulcro dell’universo. Però questa volta potrebbe aver ragione…

Era un’affermazione quasi accettabile. Per noi, non c’era dubbio: il più importante anello tra tutte le complesse interrelazioni tra mente e materia era proprio lì: galleggiava sul letto fluidizzato, e sembrava il protagonista di un film giapponese dell’orrore. Senza Roger Torraway, il lancio per Marte non poteva venire effettuato in tempo. Miliardi di persone potevano dubitare dell’importanza della cosa: noi no.

Roger era il fulcro di tutto. Intorno a lui, nel grande palazzo del progetto, si svolgevano tutti gli sforzi ancillari e concomitanti destinati a trasformarlo in ciò che doveva essere. Nella vicina sala operatoria, Freeling, Weidner e Bradley gli innestavano parti nuove. Là sotto, nella vasca marziana normale, dove era morto Willy Hartnett, le stesse parti venivano collaudate nell’ambiente marziano. Qualche volta si verificava un fiasco, in un tempo spaventosamente breve: allora le parti venivano riprogettate, se era possibile, oppure integrate… o qualche volta usate egualmente, tra preghiere e scongiuri.

L’universo si espandeva intorno a Roger, come gli strati di una cipolla. Più lontano, nello stesso edificio, c’era il gigantesco 3070, che ticchettava e ronzava e aggiungeva nuovi segmenti di programmazione per restare al passo dei sistemi di mediazione innestati in Roger ora per ora. Fuori dal palazzo c’era la comunità di Tonka, che sarebbe vissuta o sarebbe morta a seconda dell’andamento del progetto, perché il progetto era il suo datore di lavoro e la sua principale ragion d’essere. Tutto intorno a Tonka c’era il resto dell’Oklahoma, e poi, estendentisi in tutte le direzioni, gli altri cinquantaquattro stati, e intorno ad essi il mondo sconvolto e inferocito, intento a scagliare arroganti note diplomatiche da una capitale all’altra, sul piano politico, e a lottare per la sopravvivenza in ciascuna delle miriadi di esistenze personali.

Coloro che lavoravano al progetto avevano finito per escludersi da quasi tutto quel mondo. Non guardavano i telegiornali, se potevano farne a meno, e dei giornali preferivano leggere solo le pagine sportive. Erano molto indaffarati e non avevano molto tempo libero, ma la vera ragione non era questa. Molto semplicemente, non volevano sapere. Il mondo impazziva, e l’isolamento straniato dentro al gran cubo bianco del palazzo del progetto appariva loro razionale e reale, mentre le sommosse a New York, la guerra con le armi nucleari tattiche intorno al Golfo Persico e la fame di massa in quelle che venivano chiamate «nazioni emergenti» sembravano fantasie inconsistenti. Erano fantasie. O almeno, non avevano importanza per il futuro della nostra razza.

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