Frederik Pohl - Uomo più

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Questo nuovo romanzo di Frederik Pohl ci presenta il primo tentativo di colonizzazione del pianeta Marte: non il Marte sognato dalla fantascienza di cinquant’anni fa, ma il Marte che oggi conosciamo attraverso i risultati trasmessi dalle sonde spaziali.
Il protagonista della colonizzazione è Uomo Più: l’uomo più gli ausili che gli possono offrire i computer, e il protagonista del romanzo è il primo di questi uomini. Macchine sofisticate collegate al suo corpo hanno sostituito i suoi organi con altri organi artificiali, ed egli è ora adatto a vivere nell’atmosfera rarefatta di Marte, a trarre dal sole l’energia che gli occorre. Ma i suoi ex simili, le persone umane normali, non lo riconoscono più come uno di loro, e Marte, considerato come un’avventura e un episodio, si rivela il suo esilio e la sua casa.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e Locus in 1977.

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— Giusto, — rispose Kayman, impugnando il volante e riportando la macchina sui comandi manuali. Si infilò in un posto libero, pensando ancora a Roger Torraway. C’era il problema immediato della moglie di Rog. Era già un grosso guaio. Ma c’era anche il problema maggiore: come avrebbe fatto Roger ad affrontare il più grande dei quesiti personali — cos’è Giusto e cos’è Ingiusto? — se le informazioni su cui doveva basare una decisione venivano filtrate attraverso i circuiti mediatori di Brad?

L’insegna, sopra la vetrina del negozio, diceva PRETTY FANCIES. Era un negozio piuttosto piccolo, secondo i criteri del centro, dove c’era un Two Guys con un’area di centomila metri quadri e un supermarket quasi altrettanto enorme. Ma era abbastanza grande per costare parecchio. Tra affitto, spese varie, assicurazioni, stipendio per tre commessi, due dei quali impiegati part-time, e una generosa paga dirigenziale per Dorrie, ogni mese comportava una perdita netta di quasi duemila dollari. Roger era felice di pagare, anche se la nostra contabilità gli aveva fatto osservare che sarebbe costato meno dare a Dorrie quei duemila dollari mensili come spillatico.

Dorrie stava ammucchiando delle porcellane su di un banco con la scritta: «Liquidazione — Metà Prezzo». Salutò i visitatori con un cortese cenno del capo. — Salve, Don. Lieta di vederla, suor Clotilda. Volete comprare delle tazze da tè rosse a buon mercato?

— Sono molto carine, — disse Clotilda.

— Oh, sì. Ma non le compri per il monastero. L’FDA ha ordinato di ritirarle dal mercato. L’invetriatura è velenosa… purché si bevano almeno quaranta tè al giorno sempre nella stessa tazza, per vent’anni.

— Oh, che peccato. Ma… le vende?

— L’ordinanza entrerà in vigore solo fra trenta giorni, — spiegò Dorrie, con un sorriso malizioso. — Forse non avrei dovuto dirlo a un prete e a una suora, vero? Ma, sinceramente, abbiamo venduto per anni questo tipo di invetriatura e non ho mai saputo che qualcuno ne sia morto.

— Vuoi prendere il caffè con noi? — chiese Kayman. — In altre tazze, naturalmente.

Dorrie sospirò, allineò esattamente una tazza e disse: — No, parliamo pure. Venite nel mio ufficio. — Li precedette, voltando la testa per aggiungere: — Tanto, so perché siete qui.

— Oh? — fece Kayman.

— Volete che io vada a trovare Roger. Giusto?

Kayman sedette su una gran poltrona, davanti alla scrivania. — Perché non vai, Dorrie?

— Diamine, Don, a che serve? Non è cosciente. Non si accorgerebbe neppure se io fossi lì o no.

— È sotto l’effetto di sedativi molto forti, sì. Ma ha qualche periodo di lucidità.

— Mi ha cercata?

— Ha chiesto di te. Cosa vuoi che faccia? Che implori?

Dorrie alzò le spalle, giocherellando con un pezzo da scacchi di ceramica. — Non ti viene mai in mente di farti gli affari tuoi, Don? — chiese.

Kayman non si offese. — È quel che faccio. In questo momento, Roger è il nostro unico uomo indispensabile. Sai quello che gli stanno facendo? È già stato sul tavolo operatorio ventotto volte. In tredici giorni! Non ha più occhi. Né polmoni, cuore, orecchie, naso… Non ha più neppure la pelle: è sparita tutta, a pochi centimetri quadrati per volta, sostituita da sostanze sintetiche. Scuoiato vivo… vi sono stati uomini che sono diventati santi, per questo, e adesso c’è un uomo che non può neppure ricevere la visita di sua moglie…

— Oh, merda, Don! — scattò Dorrie. — Non sai quel che dici. È stato Roger a chiedermi di non andarlo a trovare, dopo l’inizio degli interventi chirurgici. Pensava che non sarei stata capace di… Non voleva che lo vedessi così!

— Ho l’impressione, — disse il prete con un filo di voce, — che tu sia un tipo molto forte, Dorrie. Davvero non riusciresti a sopportarlo?

Dorrie fece una smorfia. Per un momento, il suo bel viso non fu più bello. — Non è questione di quel che posso sopportare, — disse. — Don, senti. Sai cosa significa essere sposata a un uomo come Roger?

— Beh, credo sia molto bello, — fece Kayman, stupito. — È un uomo buono!

— Sì. Questo lo so almeno quanto lo sai tu, Don Kayman. Ed è perdutamente innamorato di me.

Vi fu un breve silenzio. — Non credo di capire quello che intende, — azzardò suor Clotilda. — Le dispiace?

Dorrie scrutò attenta la suora. — Mi dispiace. Beh, è un modo come un altro per dirlo. — Depose il pezzo degli scacchi e si sporse un poco in avanti. — È il sogno di ogni donna, no? Trovare un eroe autentico, bello e intelligente e famoso e quasi ricco… e così pazzamente innamorato da non vedere niente che non va. È per questo che ho sposato Roger. Quasi non riuscivo a credere a tanta fortuna. — La voce della giovane donna salì di mezzo tono. — Non credo che lei sappia cosa significa avere qualcuno perdutamente innamorato. A che serve un uomo così intronato? Qualche volta, quando siamo a letto insieme e io cerco di addormentarmi, e lo sento lì, sdraiato vicino a me, sveglio, e non si muove, non si alza per andare in bagno… così maledettamente delicato… Sapete che quando viaggiamo insieme Roger non va mai in bagno fino a quando non è convinto che io sia addormentata, o fino a quando io sono da qualche altra parte? Si fa la barba appena si alza… non vuole che lo veda con i capelli in disordine. Si rade le ascelle, usa deodoranti tre volte al giorno. Mi… mi tratta come se fossi la Vergine Maria, Don! È fatuo. E tutto questo dura da nove anni.

Dorrie guardò con aria implorante il prete e la suora, che tacevano un po’ a disagio. — E poi, — continuò, — mi arrivate qui voi e mi dite che dovrei andare a vederlo mentre lo stanno trasformando in qualcosa di orrido, di ridicolo. Voi e tutti gli altri. Ieri sera è venuta Kathleen Doughty. Non la finiva più: aveva bevuto e rimuginato, e aveva deciso di venirmi a dire, dall’alto della sua saggezza ispirata dal bourbon, che io rendevo infelice Roger. Beh, ha ragione lei. Avete ragione tutti quanti. Lo rendo infelice. Ma vi sbagliate se pensate che andando a trovarlo lo renderei felice… Oh, diavolo.

Il telefono squillò. Dorrie alzò il ricevitore, poi diede un’occhiata a Kayman e a suor Clotilda. L’espressione quasi supplichevole diventò impenetrabile come quella delle statuine di porcellana sul tavolo accanto. — Scusatemi, — disse, rialzando i morbidi petali di plastica intorno al microfono, che assicuravano l’insonirizzazione, e girandosi sulla poltroncina in modo da volgere le spalle ai visitatori. Per un momento parlò, senza farsi sentire, poi depose il ricevitore e tornò a girarsi verso i due.

Kayman disse: — Sì, forse non hai tutti i torti, Dorrie. Tuttavia…

Dorrie sorrise: un sorriso di porcellana. — Tuttavia vorresti insegnarmi a vivere. Beh, non puoi farlo. Avete detto entrambi quel che volevate dire. Vi sono grata per la visita. Vi sarò ancora più grata se ve ne andrete. Non c’è altro da aggiungere.

All’interno del gran cubo bianco del palazzo del progetto, Roger giaceva disteso su un letto fluidizzato. Era così da tredici giorni: quasi sempre privo di sensi, o incapace di rendersi conto se era conscio o no. Sognava. Capiva quando sognava: dapprima grazie ai movimenti rapidi degli occhi, e più tardi dai fremiti delle terminazioni muscolari, dopo che gli occhi erano asportati. Alcuni dei suoi sogni erano realtà, ma non era in grado di distinguerli.

Noi sorvegliavamo continuamente Roger Torraway, secondo per secondo. Non c’era flessione di muscolo o lampo di sinapsi che non mettesse in moto qualche monitor, e noi integravamo diligentemente i dati e mantenevamo una sorveglianza continua sulle sue funzioni vitali.

Era solo l’inizio, quello. Ciò che era stato fatto a Roger nei primi tredici giorni di interventi chirurgici non era molto di più di quanto era stato fatto a Willy Hartnett. E non era abbastanza.

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