Arthur Clarke - La città e le stelle

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Diaspar, un’immensa metropoli del futuro. Una superciviltà arrivata all’ultimo stadio dello sviluppo. Un pianeta deserto, ostile, «proibito»: è in questo scenario che si muove Alvin, il giovane eroe di questo romanzo che resta fra i più celebri di Clarke. La domanda che lo ossessiona é: come riscoprire l’antico segreto della razza umana? Come uscire dal labirinto sotto vetro e tornare al volo spaziale?

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12

Alvin si svegliò nel cuore della notte. Qualcosa l’aveva disturbato, un leggero rumore che era arrivato fino a lui nonostante il frastuono incessante della cascata. Si mise a sedere nel buio, cercando di scrutare la penombra e tendendo l’orecchio allo scroscio dell’acqua e ai rumori appena percettibili e fuggevoli degli animali notturni.

Non si vedeva niente. La luce delle stelle non bastava a illuminare i chilometri di paesaggio che si stendevano centinaia di metri più in basso. Soltanto la linea più scura, frastagliata, che nascondeva le stelle del sud indicava dov’erano le montagne. Accanto a lui, Hilvar si girò su un fianco e si appoggiò sul gomito.

«Che c’è?» bisbigliò.

«Mi sembra di sentire un rumore.»

«Che rumore?»

«Non so. Forse mi sono sbagliato.»

Nel silenzio, due paia d’occhi scrutarono il mistero della notte. All’improvviso Hilvar afferrò il braccio di Alvin.

«Guarda!» sussurrò.

A sud, lontano, scintillava un solitario punto luminoso, troppo basso nel cielo per essere una stella. Mentre guardavano, si fece sempre più intenso, fino a che l’occhio non riuscì più a fissarlo. Poi esplose… Fu come se un fulmine avesse colpito gli estremi confini del mondo. Per un attimo le montagne si orlarono di fuoco contro il buio del cielo. Passò un’eternità prima che si udisse il fantasma di un’esplosione lontana, e un’improvvisa raffica di vento agitò gli alberi dei boschi sottostanti. Poi, tutto tornò tranquillo e, una alla volta, le stelle si riaccesero nel cielo.

Per la seconda volta in vita sua, Alvin conobbe la paura. Non un sentimento personale e imminente quale aveva provato nella sala dei veicoli sotterranei, quando aveva preso la decisione che lo aveva portato a Lys.

Forse, più che paura adesso era stupore. Stava fissando l’ignoto, ed era come se avesse avuto la certezza che oltre quelle montagne c’era qualcosa da scoprire.

«Cos’era?» mormorò.

«Sto cercando di scoprirlo» fece Hilvar, e si richiuse nel silenzio. Alvin immaginò quel che stava tentando di fare e non volle disturbarlo.

Infine Hilvar diede un sospiro di disappunto. «Dormono tutti. Non c’è nessuno che mi possa rispondere. Dobbiamo aspettare che sia mattina. Potrei svegliare qualcuno, ma non voglio farlo senza una ragione veramente importante.»

Alvin si chiese cosa intendesse Hilvar per ragione importante. Stava per ribattere, con un certo sarcasmo, che quello gli sembrava proprio il caso di interrompere il sonno di qualcuno, ma Hilvar lo prevenne.

«Ora ricordo» disse, quasi in tono di scusa. «È molto tempo che non vengo da queste parti e non sono sicuro del mio orientamento. Ma quella dev’essere Shalmirane.»

«Shalmirane! Esiste ancora?»

«Sì. Me n’ero quasi dimenticato. Una volta Seranis mi ha detto che la fortezza è laggiù, tra quelle montagne. È in rovina da tempo immemorabile, si sa, ma potrebbe esserci ancora qualcuno.»

Shalmirane! Per i figli delle due razze, così diverse tra loro per cultura e per storia, quel nome aveva lo stesso suono magico. Tutta la storia del mondo non conosceva un fatto epico più grande della battaglia di Shalmirane contro l’invasore che aveva conquistato tutto l’Universo. Per quanto i fatti veri si fossero completamente persi nella nebbia che aveva avvolto l’Alba del Mondo, le leggende non erano mai state dimenticate, e avrebbero resistito finché l’Umanità fosse vissuta.

La voce di Hilvar si fece nuovamente sentire nel buio.

«Quelli che abitano al sud potrebbero dirci qualcosa di più. Ho diversi amici in quella zona. Domani mattina li chiamerò.»

Alvin non lo stava quasi ascoltando. Si era immerso nei suoi pensieri e cercava di ricordare tutto ciò che aveva sentito su Shalmirane. Era pochissimo, purtroppo. Dopo l’immenso periodo di tempo trascorso, nessuno poteva ricavare la verità da una leggenda. Ma una cosa era certa: la battaglia di Shalmirane aveva segnato la fine delle conquiste dell’Uomo e l’inizio del suo lungo declino.

Tra quelle montagne, pensava Alvin, giaceva forse la risposta a tutti i problemi che lo tormentavano.

«Quanto ci vuole per raggiungere la fortezza?»

«Non ci sono mai stato, ma è molto lontano. Non credo che ce la faremmo in un giorno.»

«Possiamo usare la vettura?»

«No. Sono strade di montagna, nessun mezzo può arrivarci.»

Alvin rimase soprappensiero. Era stanco, aveva i piedi indolenziti, e i muscoli delle gambe erano ancora affaticati per l’insolito sforzo compiuto.

Era quasi tentato di rimandare il viaggio a un’altra volta. Ma forse non ci sarebbe stata un’altra volta…

Sotto la debole luce delle stelle cadenti — quante stelle erano morte dal giorno in cui era stata fondata Shalmirane! — Alvin prese la sua decisione.

Niente era cambiato. Le montagne avevano ripreso la loro guardia sulla pianura addormentata. Ma la svolta decisiva della storia era stata superata.

L’Umanità si stava muovendo verso un nuovo, strano futuro.

Alvin e Hilvar non dormirono più per quella notte, e alle prime luci dell’alba levarono il campo. La collina era umida di rugiada e Alvin ammirò stupito le goccioline luccicanti che piegavano i fili d’erba e le foglie.

Quando ripresero il cammino, il fruscio dei passi sull’erba bagnata lo affascinò. Guardando indietro verso la cima della collina, vedeva il sentiero che si erano lasciati alle spalle: era simile a un nastro nero disteso in mezzo a un prato luccicante. Il sole si era appena alzato sulle mura a oriente di Lys quando raggiunsero il limite della foresta. Qui, la Natura era tornata primitiva. Perfino Hilvar sembrava un po’ smarrito tra gli alberi giganteschi che impedivano alla luce di filtrare, creando grandi macchie d’ombra sul terreno della giungla. Dalia cascata, il fiume scendeva verso sud con un percorso troppo rettilineo per essere naturale, e camminando sulla riva riuscirono a evitare il più denso groviglio di piante. La più grande preoccupazione di Hilvar era quella di badare a Krif, che a volte spariva nella giungla, o si lanciava in volo sulle acque. Alvin, per il quale tutto era novità, notò che la foresta aveva un fascino diverso da quelle più piccole e più curate che si stendevano a nord. Poche piante erano identiche fra loro. Per lo più si trovavano a diversi stadi di involuzione, e alcune, durante i millenni, erano tornate alla loro forma originale. Parecchie non erano della Terra… e forse neppure del Sistema solare. Sulle piante più piccole si ergevano come sentinelle le gigantesche sequoie, che superavano i cento metri di altezza. Una volta erano state definite le più vecchie forme di vita della Terra, e riuscivano ancora a essere più anziane dell’Uomo.

Il fiume si allargava sempre più, formando ogni tanto piccoli laghi con minuscole isole. Molti erano gli insetti, creature a colori vivaci, che volavano disordinatamente sull’acqua. Una volta, nonostante gli ordini di Hilvar, Krif si allontanò veloce per andarsi a unire a un gruppo di lontani cugini. Scomparve all’istante in una nuvola di ali scintillanti, e nell’aria si sparse un ronzio rabbioso. Un attimo dopo la nuvola si aprì e Krif ne uscì di scatto, volando verso di loro a velocità vertiginosa. Da quel momento rimase sempre vicino a Hilvar, e non fece altri tentativi di cercare nuove amicizie. Verso sera, i due giovani riuscirono a intravedere di nuovo le montagne. Il fiume, la loro guida preziosa, scorreva ora pigramente, come se si stesse preparando al riposo della notte. Era chiaro comunque che loro non sarebbero riusciti a raggiungere le montagne prima del calar del sole.

La foresta, ancora prima che facesse buio, si era avvolta d’ombra e un vento freddo aveva cominciato a soffiare tra le foglie.

I due esploratori si accamparono sotto una sequoia gigante i cui rami più alti erano illuminati dai raggi del sole.

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