Quando il sole calò dietro le montagne, sulle acque danzanti del fiume rimase per un poco una certa luce. I due esploratori, perché tali si consideravano, e in fondo lo erano, si misero ad aspettare la notte, osservando il fiume e pensando a tutto ciò che avevano visto. Alvin stava riprovando quel delizioso torpore che aveva conosciuto la notte precedente, e assaporò la gioia di concedersi al sonno. Nella vita senza fatiche di Diaspar era inutile dormire, ma qui diventava indispensabile. Proprio nel momento in cui stava per chiudere gli occhi si chiese chi fosse stato l’ultimo essere umano a percorrere quel cammino, e quanto tempo prima.
Il sole era alto quando lasciarono la foresta e si fermarono ai piedi delle montagne che formavano le mura di Lys. Davanti a loro, la roccia s’inerpicava verso l’alto con ripidi strapiombi. Il fiume terminava in modo spettacolare, come quando era apparsa di colpo la cascata: il terreno si apriva, e le acque del fiume scomparivano rombando nel sottosuolo. Alvin cercò di immaginare attraverso quali caverne sotterranee scorresse prima di riemergere alla luce del giorno. Forse gli oceani della Terra esistevano ancora, persi nella profondità, e il vecchio fiume sentiva ancora il richiamo che lo portava al mare.
Hilvar rimase per qualche istante a osservare i gorghi e il terreno selvaggio che si stendeva attorno, poi indicò un passaggio tra i monti. «Shalmirane è in quella direzione» affermò. Alvin capì che Hilvar si era messo mentalmente in contatto con qualcuno dei suoi amici.
Non ci volle molto per raggiungere il passaggio, e quando l’ebbero attraversato si trovarono in vista di un altopiano i cui lati salivano con dolce pendenza. Ora Alvin non provava più stanchezza né paura, solo un’ansia tesa per la rivelazione vicina. Non riusciva a immaginare cosa avrebbe scoperto. Ma sul fatto che avrebbe finito per scoprire qualcosa non c’erano dubbi. Mentre si avvicinavano alla cima, la natura del suolo cambiò bruscamente. Ai piedi della montagna il pendio era stato di pietre vulcaniche, porose, accumulate qua e là in grossi mucchi. Ora la superficie si era fatta dura, lucida, e pericolosamente levigata, come se un tempo la roccia fusa fosse corsa a fiumi giù per la montagna.
Giunsero a pochi passi dalla cima.
Hilvar fu il primo a balzare sull’orlo dell’altopiano. Alvin lo raggiunse e si fermò stupito al suo fianco. Non erano sul ciglio di un altopiano, come immaginavano, ma sull’orlo di un gigantesco cratere, profondo un chilometro e mezzo e con più di quattro chilometri di diametro. Davanti a loro il terreno scendeva ripido, livellandosi leggermente verso il fondo della buca per poi risalire dalla parte opposta. La parte più bassa della conca era occupata da un laghetto circolare la cui superficie tremava continuamente, come se fosse agitata da onde incessanti.
Sebbene fossero completamente illuminate dal sole, le pareti interne erano nere come l’ebano. Alvin e Hilvar non riuscivano nemmeno a immaginare di quale materiale fosse composto il cratere, ma era nero, come roccia di un mondo che non ha mai conosciuto la luce del sole. Ma la cosa più strana era la fascia di metallo che ne orlava la bocca. Era larga circa trenta metri, annerita dal tempo, ma non mostrava il minimo segno di corrosione.
A mano a mano che i loro occhi si abituavano alla scena, Alvin e Hilvar si accorsero che il nero della conca non era così assoluto come era sembrato al primo momento. Qua e là, piccoli sprazzi di luce si accendevano rapidissimi sulle pareti di ebano. E svanivano immediatamente come stelle che si riflettessero su un mare agitato.
«È meraviglioso!» mormorò Alvin. «Ma cos’è?»
«Sembra una specie di riflettore.»
«Ma è così nero!»
«Solo ai nostri occhi, non dimenticarlo. Non sappiamo che genere di radiazioni usassero.»
«Ma ci dev’essere qualcos’altro. Dov’è la fortezza?»
Hilvar indicò il lago. «Guarda bene.»
Alvin fissò la superficie increspata del lago, cercando di carpire il segreto nascosto in quelle acque. Dapprima non vide nulla; poi, vicino agli orli, distinse un debole reticolo di luce e ombra. Riuscì a seguirne lo schema fino al centro del lago, dove andava a perdersi nell’acqua più profonda.
Il lago scuro aveva sommerso la fortezza. Laggiù giacevano le rovine di edifici una volta potenti, ora sopraffatti dal tempo. Ma non tutto era stato sommerso, perché sull’altro lato del cratere Alvin scorse mucchi di pietre e grossi blocchi che un tempo avevano fatto parte delle massicce pareti.
L’acqua le lambiva, ma non era ancora riuscita a ingoiarle del tutto e completare la sua vittoria.
«Facciamo il giro del lago» propose Hilvar, parlando sottovoce, come se la maestosa desolazione lo intimorisse. «Forse troveremo qualcosa fra quelle rovine laggiù.»
Per i primi cento metri la discesa era così ripida e liscia che fu difficile tenersi in piedi; ma ben presto giunsero dove il declivio si raddolciva, e poterono camminare senza difficoltà. Vicino alle sponde del lago la superficie d’ebano levigato era coperta da un sottile strato di terriccio, forse portato dal vento di secoli. Poche centinaia di metri più in là, titanici blocchi di pietra erano accumulati l’uno sull’altro, come balocchi abbandonati da un bambino gigante. Qui si riconosceva ancora una massiccia sezione di parete; là, due obelischi scolpiti indicavano un’antica porta. Dovunque crescevano piante rampicanti e muschio. Anche il vento sembrava soffiare sottovoce.
Così Alvin e Hilvar raggiunsero le rovine di Shalmirane. Contro quelle mura, e contro le energie che esse contenevano, avevano tuonato e fiammeggiato forze capaci di ridurre in polvere un intero mondo, ed erano state sconfitte. Un tempo, in quel cielo tranquillo avevano brillato fuochi strappati al cuore di antichi soli, e le montagne di Lys dovevano aver tremato come creature vive sotto la furia dei loro padroni.
Nessuno aveva mai espugnato Shalmirane. Ora, però, la fortezza, l’inespugnabile fortezza, era vinta dai pazienti viticci dell’edera, dalle generazioni dei vermi, dalla lenta crescita delle acque del lago.
Attoniti di fronte a tanta maestà, Alvin e Hilvar camminavano in silenzio verso le colossali rovine. Passarono sotto l’ombra di un muro diroccato e scesero in un canalone fiancheggiato da massi enormi. Davanti a loro si stendeva il lago. Andarono a fermarsi dove l’acqua scura già lambiva i loro piedi. Piccole onde venivano a rompersi incessantemente sulla riva.
Hilvar fu il primo a parlare. Nella sua voce c’era una nota d’incertezza che spinse Alvin a guardarlo sorpreso.
«C’è qualcosa che non capisco» disse lentamente. «Non ce vento. Perché allora queste increspature? L’acqua dovrebbe essere perfettamente calma.»
Alvin non ebbe tempo di formulare una risposta. Hilvar si era gettato in ginocchio col capo piegato, e aveva immerso l’orecchio destro nell’acqua.
Alvin si domandò cosa sperasse di scoprire in quella ridicola posizione, poi si rese conto che stava ascoltando. Dopo un attimo di esitazione, Alvin seguì l’esempio dell’amico.
La sensazione di gelo durò pochi secondi; poi il giovane cominciò a sentire, debole ma distinta, una pulsazione continua, ritmica. Era come se dalle profondità del lago salisse il battito di un cuore gigante.
I due si rialzarono e si fissarono in silenzio. Nessuno osava dire ciò che pensava, cioè che il lago era vivo.
«Sarebbe meglio» fece infine Hilvar «se cercassimo tra le rovine, tenendoci lontani dal lago.»
«Credi che ci sia qualcosa laggiù?» domandò Alvin indicando le misteriose onde che si frangevano ai piedi. «Qualcosa di pericoloso?»
«Niente che possegga una mente può essere pericoloso» rispose Hilvar («Sarà vero?» pensò Alvin. «E gli Invasori, allora?») «Non riesco a captare nessun pensiero, qui, eppure ho la sensazione che non siamo soli. È molto strano.»
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