Alterazioni quasi impercettibili si susseguivano continuamente. Ormai alla superficie dell’acqua non restava che il diaframma vibrante per mezzo del quale il mostro si esprimeva. Senza dubbio anche quel diaframma, quando ne fosse cessata l’utilità, sarebbe tornato alla massa amorfa originale di protoplasma.
Alvin stentava a credere che in una forma così instabile potesse risiedere un’intelligenza, ma la sorpresa più grande doveva ancora venire. Sebbene fosse evidente che la strana creatura non era di origine terrestre, perfino Hilvar, con tutta la sua conoscenza della biologia, impiegò parecchio tempo prima di rendersi conto che l’organismo con cui stava parlando non era una singola entità. L’essere si era espresso sempre riferendosi a «noi»: infatti non era altro che una colonia di esseri indipendenti, organizzata e controllata da forze sconosciute.
Animali di tipo vagamente simile, le meduse, ad esempio, erano un tempo esistiti negli antichi oceani della Terra. Alcuni erano stati di grandi dimensioni, con corpi traslucidi e foreste di tentacoli e di ventose, ma nessuno aveva mai posseduto un guizzo d’intelligenza, a parte alcune reazioni a stimoli elementari.
Qui c’era un’intelligenza, anche se debole e in declino. Alvin non doveva mai più dimenticare quell’incontro assurdo, con Hilvar che ricostruiva lentamente la storia del Maestro, il polpo che tentava di emettere parole umane, il lago torbido che lambiva le rovine di Shalmirane, e il robot che li fissava con i suoi tre occhi.
Il Maestro era giunto sulla Terra durante il caos dei Secoli di Transizione, quando già l’Impero Galattico stava andando in rovina, ma quando ancora le linee di comunicazione tra le stelle non erano completamente interrotte. Aveva avuto un’origine umana, anche se la sua patria era un pianeta che ruotava attorno a uno dei Sette Soli. Ancora giovane, era stato costretto a lasciare il mondo natale, il cui ricordo l’aveva perseguitato per tutta la vita. Dava la colpa di quell’espulsione a nemici vendicativi, ma in verità soffriva di una malattia che, a quanto pare, attaccava solo l’homo sapiens tra tutte le specie intelligenti dell’universo. Quella malattia era la mania religiosa.
Durante i primi periodi della propria storia, la specie umana aveva prodotto una serie interminabile di profeti, veggenti, messia ed evangelisti capaci di convincere se stessi e i loro seguaci che solo a loro erano stati rivelati i segreti dell’universo. Alcuni avevano fondato religioni che erano sopravvissute e avevano influenzato miliardi di uomini; altri erano stati dimenticati ancor prima di morire.
Il progredire della scienza, che con monotona regolarità rifiutava le cosmologie dei profeti e produceva miracoli contro cui non si potevano mettere a confronto, aveva distrutto tutte queste fedi. Non aveva distrutto, però, il rispetto, né la riverenza e l’umiltà che tutti gli esseri intelligenti provavano nel contemplare lo stupendo universo in cui vivevano. Quelle che indebolirono, e vennero alla fine dimenticate, furono le innumerevoli religioni, tutte intente a proclamare con incredibile arroganza di essere le uniche depositarie della verità, dichiarando che i milioni di rivali, e i predecessori, erano in errore.
Tuttavia, per quanto non avessero mai posseduto una qualsiasi vera potenza dopo che l’umanità aveva raggiunto un livello elementare di civiltà, durante le ere erano continuati a comparire culti isolati, e per quanto fantastico fosse il loro credo, erano sempre riusciti a radunare alcuni discepoli.
Questi culti avevano prosperato soprattutto nei periodi di confusione e di disordine, e non era strano che i Secoli di Transizione avessero visto una forte esplosione di irrazionalità. Quando la realtà è deprimente, gli uomini si rifugiano nei miti.
Il Maestro, sebbene espulso dal proprio mondo, non si era lasciato abbattere. I Sette Soli erano stati il centro del potere galattico e della scienza, ed egli doveva aver avuto alcuni amici influenti… Aveva compiuto la sua Egira in una piccola ma velocissima nave, una delle più veloci che fossero state costruite. In esilio aveva portato con sé un altro perfetto prodotto della scienza galattica: il robot che ancora oggi stava fissando Alvin e Hilvar.
Nessuno aveva mai conosciuto a fondo tutte le facoltà e le funzioni di quel robot. In un certo senso esso era divenuto l’alter ego dei Maestro; senza quel robot, la religione dei Grandi sarebbe probabilmente scomparsa dopo la morte del suo profeta. Insieme avevano vagabondato in mezzo alle stelle, seguendo un cammino a zig-zag che portava al mondo dal quale erano partiti gli antenati del Maestro.
Intere biblioteche erano state scritte su quella leggenda, e ogni opera aveva ispirato una quantità di commenti, fino al giorno in cui, come per una specie di reazione a catena, i volumi originali si erano persi dietro montagne di esami critici e interpretazioni.
Il Maestro si era fermato in molti mondi e aveva adunato discepoli tra molte razze. Doveva aver avuto una personalità immensamente forte, tanto da convertire razze umane e non umane, e senza dubbio, per aver esercitato tale richiamo, la sua religione doveva aver contenuto parecchi nobili concetti. Forse era stato l’ultimo e il più ascoltato di tutti i messia dell’umanità. Nessuno dei suoi predecessori aveva mai avuto tanti seguaci, né i loro insegnamenti avevano mai superate tali barriere di tempo e di spazio.
Ma né Alvin né Hilvar riuscirono a scoprire quali fossero stati i suoi insegnamenti. Il grosso polpo faceva del suo meglio per comunicarli, ma usava termini privi di significato, e ripeteva frasi e citazioni con tale meccanica rapidità che era impossibile seguirlo. Hilvar cercò di stornare la conversazione da quell’incomprensibile filastrocca teologica per scendere a fatti più concreti.
Il Maestro e un gruppo dei più fedeli discepoli erano scesi sulla Terra prima che le città fossero scomparse, e quando ancora l’astroporto di Diaspar era aperto alle stelle. Dovevano essere arrivati su astronavi di specie diverse. I polpi, per esempio, in un’astronave piena di quell’acqua che era il loro elemento naturale. Non era chiaro se la nuova dottrina era stata bene accolta sulla Terra, comunque non aveva incontrato opposizioni violente.
E dopo diversi vagabondaggi i discepoli si erano stabiliti tra le foreste e le montagne di Lys.
Alla fine della sua lunga vita, i pensieri del Maestro si erano nuovamente rivolti verso il mondo da cui era esiliato, e aveva chiesto agli amici di portarlo all’aperto, per poter contemplare le stelle. Aveva aspettato di vedere i Sette Soli, e verso la fine, quando le forze lo stavano abbandonando, aveva mormorato alcune frasi che nelle età future avrebbero ispirato altre miriadi di interpretazioni. Aveva parlato in continuazione dei «Grandi» che avevano lasciato questo universo di spazio e materia; aveva incaricato i suoi seguaci di rimanere ad attendere per dare loro il benvenuto. Quelle erano state le sue ultime parole razionali. Poi aveva perso conoscenza. Ma poco prima della fine aveva pronunciato una frase che avrebbe tormentato le menti di tutti coloro che erano in ascolto. Aveva detto: «È bello guardare le ombre colorate sui pianeti di luce eterna». Poi era morto.
Con la scomparsa del Maestro molti seguaci si erano dispersi, ma altri erano rimasti fedeli ai suoi insegnamenti, elaborandoli lentamente attraverso i secoli. In un primo tempo avevano creduto che i Grandi, chiunque fossero, sarebbero presto tornati. Poi la speranza si era indebolita. A questo punto la storia divenne confusa, e verità e leggenda parvero mescolarsi con frequenza. Alvin ebbe solo un’immagine di fanatici in attesa di un grande evento che non capivano e che sarebbe accaduto in un momento non precisato del futuro.
I Grandi non tornarono mai. La morte e la delusione dei discepoli fecero via via perdere forza al movimento. Gli esseri umani dalla breve vita furono i primi ad andarsene. E non era senza ironia che l’ultimo seguace di un profeta umano fosse una creatura completamente diversa dall’uomo.
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