Arthur C. Clarke
La città e le stelle
Originale: The City And The Stars, 1956
Traduzione: Hilja Brinis
Come un gioiello scintillante, la città giaceva nel cuore del deserto. Una volta aveva conosciuto sviluppi e trasformazioni, ma ora il Tempo scorreva senza alterarla. Il giorno e la notte si avvicendavano sul deserto; nelle strade di Diaspar l’oscurità non scendeva mai. Le lunghe notti d’inverno potevano ben gelare il deserto ricoprendolo di brina, ma la città non conosceva né il freddo né il caldo. Diaspar non aveva contatti col mondo esterno; era un universo a sé.
In passato gli uomini avevano costruito città, e alcune erano durate secoli, altre millenni, finché il Tempo non ne aveva cancellato perfino i nomi.
Solo Diaspar aveva sfidato l’Eternità e si era difesa contro il logorio delle epoche e la decadenza.
Gli oceani si erano asciugati e il deserto si era impadronito di tutto il globo. Il vento e la pioggia avevano spianato le ultime montagne, e la Terra era troppo stanca per crearne di nuove. La città restava indifferente; se anche la Terra fosse andata in briciole, Diaspar avrebbe continuato a proteggere i figli dei suoi creatori, portandoli in salvo con i loro tesori lungo la corrente del Tempo.
Essi avevano dimenticato molte cose, ma non lo sapevano. Erano stati adattati perfettamente all’ambiente, e questo a loro. Ciò che esisteva oltre i confini della città non li riguardava, poiché tutto ciò che non era Diaspar era stato annullato nelle loro menti. Diaspar era la sola cosa esistente, la sola di cui avevano bisogno, la sola che potevano immaginare. Non aveva nessuna importanza che un tempo l’Uomo avesse conquistato le stelle.
A volte, tuttavia, gli antichi miti risorgevano a turbarli ed essi provavano un certo disagio ricordando i fasti dell’Impero, di quando Diaspar era nuova e traeva la sua linfa vitale dal commercio con altri soli. Ma non desideravano ritornare ai tempi passati perché erano soddisfatti del loro eterno autunno. Le glorie dell’Impero appartenevano ai passato, e là dovevano restare. Essi ricordavano come l’Impero avesse incontrato la sua fine, e al solo ricordo degli Invasori il terrore dello spazio serpeggiava nelle loro ossa.
E subito, tornavano col pensiero alla vita e al calore della città, alla lunga età dorata il cui inizio si perdeva nel tempo e la cui fine era anche più distante. Altri uomini avevano sognato un’età come quella, loro l’avevano conquistata.
Avevano abitato sempre la stessa città, ne avevano percorso le strade, miracolosamente immutate, e tutto questo durava da oltre un miliardo di anni.
C’erano volute parecchie ore per uscire dalla Cava dei Vermi Bianchi.
Anche ora, non erano ben certi che qualche pallido mostro non li stesse inseguendo. Avevano le armi quasi scariche, ma dovevano ugualmente seguire la freccia di luce che li aveva guidati misteriosamente nelle viscere della Montagna di Cristallo, anche se, come già era accaduto, rischiavano di trovarsi in mezzo ai più tremendi pericoli.
Alvin si voltò per vedere se i suoi compagni erano ancora con lui. Alystra lo seguiva da presso, portando la sfera di luce fredda ma perenne che aveva rivelato orrori e bellezze fin dal primo momento in cui la loro avventura era cominciata. Il pallido raggio bianco illuminava lo stretto cunicolo e si spandeva sulle pareti fosforescenti. Finché fosse durata l’energia, avrebbero visto dove stavano andando, e scorto la presenza di un qualsiasi pericolo visibile. Ma i più gravi pericoli di quelle caverne, Alvin lo sapeva perfettamente, non erano visibili. Dietro Alystra, curvi sotto il peso dei proiettori, venivano Narillian e Floranus. Alvin si chiese perché mai quei proiettori fossero così pesanti, visto che sarebbe stato tanto semplice provvederli di un neutralizzatore di gravità. Pensava sempre a cose del genere, anche nel bel mezzo della più pericolosa avventura. E quando un pensiero simile gli attraversava la mente, era come se la struttura della realtà vacillasse per un attimo; allora, oltre il mondo dei sensi, gli pareva di cogliere la visione di un universo del tutto differente…
Il corridoio terminava in un muro spoglio. Forse la freccia li aveva ingannati di nuovo? No. A mano a mano che si avvicinavano, la roccia cominciò a sgretolarsi. Nel mezzo della parete fece capolino una sottile punta di metallo che ben presto si allargò divenendo una vite gigante. Alvin e i suoi amici indietreggiarono in attesa che la macchina si aprisse una via nella cava. Con uno stridio assordante provocato dal metallo contro la roccia — che certo doveva ripercuotersi in tutta la montagna, destando gli orribili mostri! — la sotterranea penetrò attraverso la parete e venne ad arrestarsi accanto a loro. La porta massiccia si aprì e Callistron apparve, urlando loro di fare presto. («Perché Callistron?» si domandò Alvin. «Cosa sta facendo in queste caverne?») Un attimo dopo erano in salvo e la macchina balzava in avanti per iniziare il suo viaggio attraverso le profondità della terra.
L’avventura era finita. Tra poco si sarebbero ritrovati a casa; si sarebbero lasciati alle spalle la meraviglia, il terrore, l’eccitazione di quelle ore. Erano stanchi e soddisfatti.
Dall’inclinazione del pavimento, Alvin era certo che la sotterranea stesse penetrando sempre più verso il basso. Callistron sapeva il fatto suo, e quella era senz’altro la via che doveva condurli a casa. Tuttavia era un peccato che…
«Callistron» disse a un tratto «perché non puntiamo verso l’alto? Nessuno sa com’è dall’esterno la montagna di Cristallo. Sarebbe magnifico uscire all’aperto su qualche pendio del monte e vedere il cielo e la terra tutt’attorno. Siamo stati sottoterra anche troppo.»
Com’ebbe pronunciato quelle parole, capì che erano sbagliate. Alystra diede un grido strozzato, l’interno della sotterranea ondeggiò come un’immagine vista attraverso l’acqua, e ancora una volta, al di là delle pareti di metallo che lo circondavano, Alvin colse uno sprazzo di quell’altro universo. I due mondi sembravano in conflitto, e con alterne vicende. Poi, all’improvviso, tutto scomparve. Ci fu un colpo secco, come se qualcosa si fosse lacerato, e il sogno finì. Alvin si ritrovò a Diaspar, nella sua camera, fluttuando di qualche centimetro al di sopra del pavimento poiché il campo gravitazionale lo proteggeva dal contatto opprimente con la materia bruta.
Era di nuovo se stesso. Questa era realtà, e Alvin poteva prevedere esattamente cosa sarebbe accaduto in seguito.
Alystra fu la prima ad apparire. Era più sconvolta che seccata, poiché era innamoratissima di Alvin.
«Oh, Alvin» protestò, fissandolo dalla parete su cui si era apparentemente materializzata. «Era un’avventura così emozionante! Perché l’hai sciupata?»
«Mi spiace, non era mia intenzione. Pensavo solo che sarebbe stata una buona idea…»
Fu interrotto dall’arrivo simultaneo di Callistron e di Floranus.
«Ascolta bene, Alvin» sbottò Callistron. «È già la terza volta che interrompi una saga. Ieri hai interrotto la sequenza perché volevi uscire dalla Valle dell’Arcobaleno. L’altro ieri, mentre facevamo quel viaggio a ritroso nel tempo, hai sciupato tutto pretendendo di ritornare alle Origini. Se non vuoi attenerti alle regole, d’ora in poi stattene per conto tuo.»
Si dileguò irritatissimo, trascinando Floranus con sé. Narillian non apparve. Probabilmente ne aveva fin sopra i capelli di quelle interruzioni.
L’immagine di Alystra rimase tristemente a fissare Alvin.
Alvin spostò il campo gravitazionale in modo da alzarsi in piedi e si avvicinò al tavolo che aveva materializzato. Un vassoio di frutta esotica apparve sul tavolo. Non era il cibo che desiderava, ma nella confusione del momento la sua mente si era sviata. Non volendo rivelare il suo errore prese uno dei frutti dall’aspetto più rassicurante e cominciò a succhiarlo con cautela.
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