Arthur Clarke - La città e le stelle

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Diaspar, un’immensa metropoli del futuro. Una superciviltà arrivata all’ultimo stadio dello sviluppo. Un pianeta deserto, ostile, «proibito»: è in questo scenario che si muove Alvin, il giovane eroe di questo romanzo che resta fra i più celebri di Clarke. La domanda che lo ossessiona é: come riscoprire l’antico segreto della razza umana? Come uscire dal labirinto sotto vetro e tornare al volo spaziale?

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Alvin capì che doveva far presto, o la sua occasione sarebbe sfumata, forse per pochi anni, forse per secoli.

«Cos’hai deciso?» incalzò. «Vuoi che il robot venga con noi?»

Ci fu una pausa penosissima, mentre il polpo tentava di dominare con la volontà il corpo agonizzante. Il diaframma parlante palpitò, ma non ne uscì alcun suono. Poi, in un disperato gesto d’addio, l’essere agitò debolmente i palpi e li lasciò ricadere nell’acqua, dove immediatamente si dispersero in frammenti minutissimi. La trasformazione si concluse in pochi secondi.

Della creatura non rimasero altro che frammenti non più grandi di un centimetro. L’acqua si riempì di piccole macchie verdastre con una loro vita e mobilità, che rapidamente si dispersero nella vastità del lago.

Le onde che increspavano la superficie erano scomparse, e Alvin comprese che anche la pulsazione della profondità doveva essere cessata. Il lago era di nuovo morto… O così sembrava. Ma un giorno le misteriose forze che mai avevano mancato di compiere il loro dovere in passato sarebbero tornate a esercitarlo, e il polpo sarebbe rinato. Era uno strano e meraviglioso fenomeno. Ma era poi molto più strano dell’organizzazione del corpo umano? Non si trattava anche qui di una grande colonia di cellule viventi separate?

Alvin non perse tempo a pensarci. Si sentiva oppresso da un senso di fallimento, anche se non aveva mai ben capito quale fosse la meta che voleva raggiungere. Aveva perso un’occasione che forse non si sarebbe mai più ripresentata. Guardò con amarezza il lago, e passò parecchio tempo prima che Alvin potesse registrare ciò che Hilvar stava mormorandogli all’orecchio.

«Alvin» stava dicendo l’amico «hai vinto.»

Si girò di scatto. Il robot, che fino a quel momento non si era mai avvicinato a più di cinque o sei metri, era fermo poco al di sopra di lui. Gli occhi immobili non fissavano alcun punto in particolare, ma Alvin ebbe la certezza che l’attenzione della macchina convergesse su di lui.

Il robot aspettava una sua mossa; era, almeno in un certo senso, sotto il suo controllo. Poteva seguirlo a Lys, forse anche a Diaspar. Almeno per il momento, Alvin poteva considerarsene padrone.

14

Il viaggio di ritorno ad Airlee durò quasi tre giorni, anche perché Alvin, per ragioni personali, non aveva alcuna fretta di ritornarvi. L’esplorazione di Lys era passata in secondo piano di fronte alla nuova, eccitante impresa: mettersi lentamente in contatto con l’intelligenza strana della macchina che era diventata la sua indivisibile compagna.

Sospettava che il robot volesse servirsi di lui per suoi scopi particolari, cosa che sarebbe risultata una specie di giustizia poetica. Quali potessero essere questi motivi non riusciva a immaginarlo, dato che il robot si rifiutava di parlare. Il Maestro, per qualche suo particolare motivo, forse per tema che i suoi segreti venissero rivelati, doveva aver bloccato i circuiti vocali della macchina, e i tentativi di Alvin per sbloccarli non approdarono a nulla. Nemmeno con tranelli del tipo: «Se non rispondi penserò che sei d’accordo» si riusciva a prenderlo in trappola; il robot era troppo intelligente per lasciarsi ingannare da trucchi del genere.

Per tutto il resto, comunque, eseguiva qualsiasi ordine. Dopo un po’ Alvin imparò a comandarlo col solo pensiero, come faceva con le macchine di Diaspar. Era un gran passo in avanti, e un po’ alla volta la macchina, sebbene sembrasse quasi impossibile considerarla tale, si fece socievole, al punto di permettere al nuovo padrone di vedere per mezzo dei suoi tre occhi.

Al contrario, ignorava completamente l’esistenza di Hilvar; non rispondeva agli ordini e teneva la mente chiusa a ogni suo sondaggio. Dapprima, Alvin si dispiacque del fatto, poiché contava sui grandi poteri mentali di Hilvar per forzare la volontà di tacere del robot; ben presto, però, si rallegrò del vantaggio di possedere un servo che ubbidisse solo a lui.

Il membro della spedizione energicamente contrario al robot era Krif.

Forse temeva in lui un rivale, o forse diffidava, per principio, di tutto ciò che poteva volare senz’ali. Diverse volte, quando nessuno lo stava osservando, aveva assalito il robot, ma si era infuriato maggiormente perché la macchina non gli aveva minimamente badato. Finalmente Hilvar era riuscito a calmarlo, e durante il viaggio sul veicolo terrestre, Krif parve rassegnato alla situazione. Robot e insetto scortarono il mezzo di locomozione che scivolava silenziosamente attraverso foreste e campi, ciascuno tenendosi dalla parte del suo padrone e ignorando completamente il rivale.

Seranis sapeva già del loro arrivo quando la vettura giunse ad Airlee.

Impossibile, pensava Alvin, cogliere questa gente di sorpresa. La possibilità di comunicare mentalmente li teneva informati su tutto ciò che avveniva nel loro territorio. Alvin era curioso di sapere come avessero reagito alla notizia dell’avventura di Shalmirane, poiché di certo tutti ne erano già al corrente.

Seranis sembrava preoccupata e incerta, più di quando l’aveva lasciata, e Alvin ricordò la scelta che avrebbe dovuto fare. Negli avvenimenti degli ultimi giorni se n’era completamente dimenticato, e tra l’altro non avrebbe sprecato energie per pensare a problemi non immediati. Ma adesso era arrivato il momento di decidere in quale dei due mondi vivere.

Seranis cominciò a parlare un po’ a disagio, e Alvin ebbe la netta impressione che, nei piani fatti a Lys sul suo conto, qualcosa fosse andato di traverso. Cos’era accaduto durante la sua assenza? Forse degli emissari si erano recati a Diaspar per alterare i ricordi di Khedron ed erano falliti nel loro intento?

«Alvin» cominciò Seranis «ci sono molte cose che non vi ho ancora detto, ma bisogna che lo sappiate per comprendere il nostro modo di agire.

Voi conoscete una delle ragioni per cui le nostre due razze si sono chiuse nell’isolamento. Il terrore degli Invasori, questo cupo fantasma che si cela in ogni mente umana, ha fatto sì che il vostro popolo si mettesse contro il resto del mondo per rinchiudersi nei propri sogni. Qui a Lys sentiamo meno questo terrore, anche se abbiamo dovuto sopportare tutto il peso dell’attacco finale. Le nostre azioni hanno un motivo, e ciò che facciamo viene compiuto a occhi aperti.

«Tanto e tanto tempo fa, Alvin, il vostro popolo ha cercato l’immortalità e l’ha ottenuta, dimenticando che per bandire la morte, bisogna bandire anche la nascita. La possibilità di estendere la propria vita all’infinito può contentare il singolo, ma impedisce l’evoluzione della specie. Noi abbiamo preferito sacrificare la nostra immortalità, Diaspar invece non ha voluto rinunciare ai suoi falsi sogni. Ecco perché ci siamo divisi, ed ecco perché non dobbiamo mai più incontrarci. "

Per quanto si aspettasse quelle parole, l’effetto che produssero su di lui fu violento. Tuttavia Alvin si rifiutava di ammettere il fallimento di tutti i suoi piani, anche se formati appena a metà, e da quel momento solo una parte della sua mente continuò ad ascoltare ciò che Seranis stava dicendo.

Capiva e annotava ogni parola, ma la parte più attiva del suo cervello stava percorrendo la strada che portava a Diaspar, cercando di immaginare quali ostacoli avevano potuto mettere lungo il percorso.

Seranis era chiaramente triste. Aveva una voce supplicante, e non parlava solo per lui, ma anche per Hilvar. Alvin lo capiva benissimo. La donna era conscia della comprensione e dell’affetto che si era stabilito tra i due giovani in quei giorni passati insieme. Hilvar fissava la madre mentre questa parlava, e nei suoi occhi c’era uno sguardo di disapprovazione.

«Non vogliamo far nulla contro la vostra volontà, ma certo voi vi rendete conto di ciò che questo incontro significherebbe per il nostro popolo.

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