Arthur Clarke - La città e le stelle

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Diaspar, un’immensa metropoli del futuro. Una superciviltà arrivata all’ultimo stadio dello sviluppo. Un pianeta deserto, ostile, «proibito»: è in questo scenario che si muove Alvin, il giovane eroe di questo romanzo che resta fra i più celebri di Clarke. La domanda che lo ossessiona é: come riscoprire l’antico segreto della razza umana? Come uscire dal labirinto sotto vetro e tornare al volo spaziale?

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Tornarono lentamente verso le rovine, senza riuscire a scacciare dalla mente l’eco di quel battito sordo. Pareva ad Alvin che il mistero andasse facendosi sempre più fitto, e che ogni sforzo lo allontanasse ancora di più dalla verità che cercava.

Non sembrava che quelle rovine potessero dire loro qualcosa, ma frugarono con cura fra i cumuli di macerie e di sassi. Lì, forse, era nascosta la tomba di macchine misteriose… quelle macchine che erano state in funzione molto tempo prima. Nel caso di un ritorno degli Invasori, pensò Alvin, le macchine sarebbero state inservibili. Perché non erano più tornati? Questo era un altro mistero. Ma aveva già troppi problemi da risolvere, per cercarne altri.

A pochi metri dal lago trovarono una piccola spianata fra i sassi. Un tempo era coperta d’erba che ora appariva tutta bruciacchiata e carbonizzata. Al centro della radura c’era un treppiede di metallo, ben infisso nel terreno, che reggeva un anello circolare inclinato sul proprio asse in modo da esser rivolto verso un punto a mezza via tra la terra e il cielo. In un primo momento parve che l’anello non racchiudesse nulla; poi, dopo un esame più attento, Alvin vide che vi gravitava dentro una sostanza evanescente che affaticava l’occhio vibrando all’orlo dello spettro visivo. Era il riverbero della potenza che emanava da quei meccanismi, Alvin ne era certo. Da lì doveva essersi prodotta l’esplosione di luce che li aveva condotti a Shalmirane.

Non osarono avvicinarsi e restarono a guardare la macchina da una prudente distanza. Erano su una buona strada; ora non restava che scoprire chi, o cosa, avesse sistemato là l’apparecchio, e con quale scopo. L’anello puntava chiaramente verso lo spazio. Forse la luce che avevano scorto era una specie di segnale? Quella possibilità implicava preoccupanti ipotesi.

«Alvin» fece all’improvviso Hilvar «abbiamo visite.»

Alvin si girò sui talloni. Vide tre occhi senza ciglia, disposti a triangolo, che lo fissavano. Quella, per lo meno, fu la sua prima impressione; poi dietro gli occhi scorse la sagoma di una piccola macchina, molto complessa.

Fluttuava nell’aria a poche decine di centimetri dal suolo e differiva da qualsiasi robot che avesse mai visto.

Passato il primo momento di sorpresa, Alvin si sentì padrone della situazione. Per tutta la vita aveva dato ordini alle macchine, e il fatto che questa gli fosse sconosciuta aveva poca importanza. Del resto aveva visto soltanto una piccola percentuale dei tipi di robot che in città provvedevano a tutti i fabbisogni giornalieri.

«Puoi parlare?» chiese.

Silenzio.

«Qualcuno ti controlla?»

Ancora silenzio.

«Allontanati. Avvicinati. Alzati. Abbassati.»

Nessuno dei comandi convenzionali produceva alcun effetto. La macchina restava sprezzantemente immobile. C’erano due possibilità: o era priva di intelligenza o era troppo intelligente, dotata inoltre di volontà e di capacità di scelta. In questo caso bisognava trattarla da pari a pari. L’aveva forse sottovalutata, ma essa non gli avrebbe serbato nessun rancore, perché la presunzione non è un difetto dei robot.

Hilvar non poté fare a meno di ridere davanti all’aria sconfitta di Alvin.

Stava per proporgli di lasciargli fare un tentativo, ma le parole gli morirono sulle labbra. Il silenzio di Shalmirane fu rotto da un suono inconfondibile: il rumoroso gorgoglio di un corpo enorme che emerge dall’acqua.

Per la seconda volta da che aveva lasciato Diaspar, Alvin desiderò essere a casa. Poi si ricordò che quello non era lo spirito adatto per affrontare un’avventura, e si mosse risolutamente verso il lago.

L’essere che stava uscendo dall’acqua sembrava la mostruosa copia, in sostanza vivente, del robot che continuava a tenerli sotto il suo silenzioso controllo. Lo stesso triangolo d’occhi non poteva essere una pura coincidenza; perfino lo schema di tentacoli e piccoli arti snodabili era stato rozzamente riprodotto. La rassomiglianza, però, non era assoluta. Il robot non possedeva, poiché non ne aveva bisogno, la frangia di palpi pelosi che battevano l’acqua con ritmo regolare, le numerose zampe tozze sulle quali la bestia cercava di trascinarsi a terra, né le valvole respiratorie, ammesso che fossero tali, che ora ansimavano aspirando l’aria.

La maggior parte del corpo del mostro era ancora sommersa; solo la parte superiore si rizzava verso l’aria con uno sforzo che dimostrava quanto l’elemento gli fosse estraneo. L’essere misurava circa quindici metri, e non occorreva possedere alcuna cognizione di biologia per comprendere quanto fosse anormale. Aveva tutta l’aria di una cosa improvvisata senza logica, come se le parti fossero state prodotte senza pensarci troppo e accostate fra loro a casaccio.

Né Alvin né Hilvar provarono il più leggero senso di sgomento quand’ebbero esaminato l’abitante del lago. Il mostro aveva un aspetto così sconclusionato che era impossibile considerarlo pericoloso. La specie umana aveva da lungo tempo imparato a superare il terrore infantile di ciò che si presenta orrido alla vista. Era una paura che dopo i primi amichevoli contatti con le razze extraterrestri non poteva più sussistere.

«Lascia che me ne occupi io» disse Hilvar. «Sono abituato a trattare con gli animali.»

«Ma questo non è un animale» bisbigliò Alvin di rimando. «Scommetto che è intelligente e che il robot è suo.»

«O il robot possiede lui. Comunque, deve avere una mentalità molto strana. Non riesco a intercettare nessuna traccia di pensiero. Ciao… Che succede?»

Il mostro non si era mosso dalla sua posizione, ma una membrana semi-trasparente aveva cominciato a formarsi al centro del suo triangolo d’occhi, una membrana che pulsava e tremava e che tutta un tratto prese a emettere dei suoni. Erano suoni bassi, gutturali, e creavano parole inintelligibili, sebbene fosse facile capire che l’essere stava cercando di comunicare.

Era doloroso assistere a quel disperato tentativo di esprimersi. Il mostro si agitò invano per parecchi minuti, poi parve rendersi conto di non aver ottenuto nulla. La membrana si contrasse ed emise suoni più alti di parecchie ottave di frequenza che rientrarono nello spettro del linguaggio normale. Cominciarono a formarsi vere parole, se pure inframmezzate da mugolii inarticolati. Era come se la creatura stesse cercando di ricordare suoni imparati molto tempo prima, ma che non aveva avuto occasione di adoperare da molti anni.

Hilvar fece del suo meglio per aiutarla.

«Ora riusciamo a capirti» disse, parlando con lentezza e marcando le sillabe. «Possiamo fare qualcosa per te? Abbiamo visto la luce. Ci ha portato qui da Lys.»

Alla parola «Lys» l’essere parve afflosciarsi come per un’amara delusione.

«Lys» ripeté. «Sempre Lys. Non viene mai nessun altro. Noi chiamiamo i Grandi ma loro non ci odono.»

«Chi sono i Grandi?» chiese Alvin, chinandosi in avanti. I palpi frangiati si stesero fremendo verso il cielo.

«I Grandi. Dai pianeti del giorno eterno. Verranno. Il Maestro che l’ha promesso.»

Questo non aiutava per niente a mettere le cose in chiaro. Prima che Alvin potesse riprendere il suo interrogatorio, Hilvar intervenne. Le sue domande erano così pazienti, così incoraggianti e tuttavia così penetranti che Alvin preferì non interromperlo. Soffocò la sua impazienza. Gli seccava ammettere che Hilvar gli fosse superiore come intelligenza, ma non c’era dubbio che la sua abilità nel trattare con gli animali fosse eccezionale. Perfino quell’essere fantastico riusciva a rispondergli. La sua parlata si faceva più distinta col procedere della conversazione. Ora le risposte erano più elaborate, e il mostro aggiungeva informazioni spontanee.

Alvin perse la cognizione del tempo mentre Hilvar ricostruiva l’incredibile storia. Non riuscirono a scoprire l’intera verità. Rimanevano ampie lacune su cui fare congetture e discussioni. Il mostro rispondeva di buon grado alle domande di Hilvar, ma il suo aspetto aveva cominciato a mutare. Era affondato un poco nel lago, e le gambe che io sorreggevano si erano come ritratte nel resto del corpo. A un tratto avvenne un cambiamento anche più sconcertante: i tre grandi occhi si chiusero, si raggrinzirono, e sparirono del tutto, come se la creatura avesse visto tutto ciò che desiderava vedere per il momento, e ormai non avesse più bisogno degli occhi.

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