A est e a ovest il panorama era quasi identico, ma a sud le montagne sembravano soltanto a pochi chilometri di lontananza. Alvin le poteva vedere distintamente, e si rese conto che erano molto più alte della cima su cui si trovava. Le separava da lui una zona molto più selvaggia di quella che avevano attraversato. Dava una sensazione di deserto e di vuoto, come se l’uomo non l’avesse più percorsa da molti e molti anni.
Hilvar rispose alla domanda muta di Alvin.
«Una volta questa parte di Lys era abitata» disse. «Non so perché l’abbiano abbandonata, e forse un giorno torneremo a occuparla. Ora è regno esclusivo degli animali.»
Infatti non si vedeva traccia di vita umana; nessun campo, o canale, che indicasse il lavoro dell’uomo. Ma c’era qualcosa a testimoniare che l’uomo vi aveva vissuto. Lontano, dal tetto della foresta, una solitaria rovina bianca si ergeva simile a una zanna spezzata. Tutto attorno la foresta aveva ripreso il suo dominio. La luce rossa del sole che stava per calare dietro le montagne aggiungeva un tocco magico alla scena. Per un attimo meraviglioso, le lontane montagne parvero incendiarsi di fiamme dorate; poi la terra fu rapidamente inghiottita dalle ombre. Era notte.
Hilvar, sempre pratico, si mise all’opera per disfare i bagagli. «Dobbiamo far presto» disse. «Tra cinque minuti sarà buio pesto, e farà anche freddo.»
Strani oggetti venivano estratti e posati sull’erba. Fra essi un piccolo treppiede con un’asta verticale allungabile, in cima alla quale c’era una protuberanza a forma di pera. Hilvar alzò l’asta fino a che la pera fu proprio al di sopra delle loro teste e diede alcuni ordini mentali che Alvin non riuscì a intercettare. Subito la pera cominciò a diffondere luce e calore. Hilvar, reggendo il treppiede in una mano e il suo zaino con l’altra, cominciò a discendere lungo il pendio, mentre Alvin lo seguiva con altri involti, facendo del suo meglio per tenersi nella piccola zona illuminata. Hilvar scelse un piccolo spiazzo e si accinse a sistemare il resto dell’equipaggiamento.
Per prima comparve una larga cupola di materiale rigido e trasparente, che li avvolse proteggendoli dalla brezza fredda che aveva cominciato a soffiare.
La cupola era generata da una scatoletta rettangolare che Hilvar posò a terra e poi dimenticò completamente, al punto da seppellirla sotto il mucchio degli altri aggeggi. Forse la stessa scatola proiettava le due cuccette su cui Alvin non vedeva l’ora di buttarsi.
Era la prima volta che Alvin vedeva oggetti materializzati a Lys dove, a suo giudizio, le case erano troppo ingombre di quei manufatti permanenti che sarebbe stato molto più conveniente conservare nelle Banche Memoria. Poco dopo Hilvar, che non smetteva di armeggiare tra le strane scatolette, presentò all’amico un completo pasto sintetico. Da un’apertura in cima alla cupola entrava un forte soffio d’aria: il convertitore di materia risucchiava i materiali necessari per compiere il normalissimo miracolo.
Tutto sommato, Alvin fu molto più soddisfatto dei cibi sintetici. Il modo in cui gli altri alimenti venivano preparati gli sembrava spaventosamente anti-igienico. Se non altro, con il convertitore di materia si sapeva esattamente cosa si mangiava…
Quand’ebbero finito di mangiare era ormai notte fonda. Al limite del cerchio di luce in cui si trovavano, Alvin riuscì a scorgere un movimento di sagome confuse. Erano le creature notturne che lasciavano i loro nascondigli. Di tanto in tanto poteva vedere il bagliore della luce riflessa negli occhi degli animali che lo stavano guardando; nessuna bestia, però, ebbe il coraggio di avvicinarsi, così Alvin non riuscì a vederle bene. Alvin, in quella pace dolcissima, si sentiva sereno e felice. Sdraiati sulle cuccette, i due giovani chiacchierarono delle cose che avevano visto, del mistero che avvolgeva entrambi e dei vari aspetti in cui le loro culture differivano. Hilvar era affascinato dal miracolo dei Circuiti d’Eternità, e Alvin faceva del suo meglio per rispondere alle domande dell’amico.
«Quel che non capisco» disse Hilvar «è in che modo i progettisti di Diaspar potevano avere la certezza che i circuiti non si sarebbero mai guastati.
Tu mi hai detto che le informazioni che definiscono la città, e tutta la gente che la abita, sono conservate sotto forma di carica elettrica all’interno di certi cristalli. Bene, i cristalli possono durare in eterno… ma tutti i circuiti collegati con loro? Non ci sono mai stati guasti di qualche genere?»
«È la stessa domanda che ho fatto io a Khedron. Mi ha detto che le Banche Memoria sono triple. Ognuno dei tre gruppi può alimentare la città, e se uno si guasta, gli altri automaticamente lo correggono. Il danno ci sarebbe solo nel caso in cui lo stesso errore si formasse in due gruppi su tre, ma le probabilità sono infinitesimali.»
«E come viene mantenuta la relazione tra il modello conservato nell’unità-memoria e la struttura della città? Tra il progetto, come era, e la cosa che esso descrive?»
Ora Alvin brancolava nel buio. La risposta implicava conoscenze tecniche basate sull’alterazione dello spazio stesso… Ma come si potesse fissare rigidamente un atomo in una posizione definita con dei dati accumulati in un altro luogo, lui non l’avrebbe saputo minimamente spiegare. Con una ispirazione improvvisa, indicò la cupola invisibile che li proteggeva nella notte.
«Dimmi come fa questa scatola a creare questo tetto sulla nostra testa, e poi io ti spiegherò come funzionano i Circuiti di Eternità.»
Hilvar scoppiò a ridere.
«Il paragone è ottimo. Dovresti chiederlo a uno dei nostri esperti del campo teorico, se vuoi saperlo. Io non lo so di certo.»
La risposta lasciò Alvin molto pensoso. Dunque a Lys c’erano ancora uomini in grado di capire come funzionavano le macchine; non si poteva dire altrettanto di Diaspar.
Continuarono a chiacchierare e a discutere, poi Hilvar sbadigliò.
«Sono stanco. Dormiamo, adesso?»
«Mi piacerebbe.» Alvin si fregò gli occhi. «Ma non so se ci riuscirò. Mi sembra un’abitudine così strana.»
«Qualcosa di più di un’abitudine» sorrise Hilvar.
«Mi hanno detto che anticamente era una necessità per ogni essere vivente. Noi ancora oggi dormiamo almeno qualche ora al giorno. Riposa il corpo e la mente. A Diaspar non dormite proprio mai ?»
«Rarissimo. Jeserac, il mio tutore, ha dormito solo una volta o due dopo aver fatto sforzi mentali eccezionali. Un corpo ben costruito non dovrebbe aver bisogno di periodi di riposo; sono milioni di anni che noi ne facciamo a meno.»
E proprio mentre parlava con tanta sicurezza, le sue azioni lo smentirono. Cominciò a provare una pesantezza sconosciuta; pareva salire dalle gambe e spargersi in tutto il corpo. Era una sensazione tutt’altro che spiacevole. Hilvar lo stava osservando con un sorriso divertito. Alvin si chiese se l’amico non stesse esercitando qualcuno dei suoi poteri mentali su di lui.
In quel caso, non si sarebbe opposto di certo.
La luce che emanava dalla pera di metallo si attenuò, ma il calore rimase costante. Nella penombra, la mente assonnata di Alvin registrò un particolare curioso e si ripromise di parlarne al mattino seguente.
Hilvar si era tolto gli abiti, e per la prima volta Alvin si accorse di quanto le due ramificazioni della razza umana si fossero differenziate. Alcuni cambiamenti erano solo di proporzione; altri, come organi genitali esterni e presenza di unghie, denti, capelli, erano fondamentali. Ma ciò che colpì Alvin più di tutto, fu la presenza di un misterioso buchetto nella cavità dello stomaco di Hilvar.
Alcuni giorni dopo se ne ricordò improvvisamente; ne venne fuori una lunga serie di spiegazioni. Alla fine Hilvar riuscì a far capire chiaramente ad Alvin il perché della presenza dell’ombelico; gli ci erano volute, però, parecchie migliaia di parole e almeno una dozzina di disegni. Ma entrambi avevano fatto un grosso passo avanti nella comprensione delle basi della loro reciproca cultura.
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