Arthur Clarke - La città e le stelle

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Diaspar, un’immensa metropoli del futuro. Una superciviltà arrivata all’ultimo stadio dello sviluppo. Un pianeta deserto, ostile, «proibito»: è in questo scenario che si muove Alvin, il giovane eroe di questo romanzo che resta fra i più celebri di Clarke. La domanda che lo ossessiona é: come riscoprire l’antico segreto della razza umana? Come uscire dal labirinto sotto vetro e tornare al volo spaziale?

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A Lys, spiegò Hilvar, tutti gli amori cominciavano con un contatto mentale e potevano passare mesi, perfino anni, prima che una coppia si incontrasse. In questo modo non potevano esserci impressioni false, né tradimenti. Due persone non potevano avere segreti l’una per l’altra se le loro menti erano in contatto diretto. Se uno dei due nascondeva qualcosa, l’altro se ne accorgeva immediatamente.

Solo personalità mature e ben equilibrate potevano affrontare tanta onestà; solo un amore privo di qualsiasi egoismo poteva sopravvivere. Alvin capiva benissimo che un simile amore sarebbe stato più profondo e più ricco di quelli che nascevano fra la sua gente; sarebbe stato così perfetto, anzi, che quasi stentava a credere che potesse davvero realizzarsi.

Pure Hilvar assicurava di sì e restò con gli occhi fissi, perduto nei suoi sogni, quando Alvin lo pregò di essere più esplicito. C’erano cose che non si potevano comunicare: o uno le sentiva, oppure no. Alvin concluse con tristezza che non sarebbe mai riuscito a raggiungere quel grado di comprensione reciproca che per questa gente fortunata rappresentava la base dell’esistenza.

La savana terminò bruscamente, come se ci fosse tracciato un confine oltre il quale l’erba non poteva più crescere. Di fronte si ergeva una catena di dolci colline boscose. La catena, spiegò Hilvar, era una propaggine del bastione principale posto a guardia di Lys. Le montagne vere e proprie erano al di là, ma per Alvin perfino quelle collinette rappresentavano una vista imponente e piena di fascino.

La vettura si arrestò in una valletta illuminata dagli ultimi raggi del sole ormai al tramonto. Hilvar gettò ad Alvin un’occhiata candida e, si sarebbe potuto giurare, del tutto innocente.

«E ora dobbiamo metterci in cammino» disse allegro, mettendosi a scaricare il bagaglio. «In vettura non è possibile proseguire oltre.»

Alvin guardò le colline, poi il comodo sedile sul quale aveva viaggiato.

«Non c’è una strada che giri attorno?» chiese, con poca speranza.

«C’è, ma noi non giriamo attorno. Andiamo sulla cima, il che è molto interessante. Inserisco il comando automatico sulla vettura, così la troveremo ad aspettarci quando scenderemo dall’altro versante.»

Alvin, ben deciso a non arrendersi senza combattere, fece un ultimo tentativo.

«Tra poco sarà buio. Non ce la faremo a fare tutta quella strada prima di notte.»

«Appunto» fece Hilvar, scaricando pacchi e attrezzature con la massima rapidità. «Passeremo la notte sulla cima, e domattina scenderemo.»

Alvin capì di essere battuto.

L’equipaggiamento che dovevano trasportare sembrava enorme, ma in pratica non pesava nulla. Tutto era imballato in scatole con polarizzatore di gravità che neutralizzavano il peso, per cui bisognava vincere solo la resistenza dell’inerzia. Finché tirava diritto, Alvin non si accorgeva affatto di essere carico, ma quegli imballaggi richiedevano un po’ di pratica perché appena tentava di cambiare un poco direzione i bagagli sembravano sviluppare una personalità ostinatissima e parevano voler proseguire nella direzione di prima. Quando Hilvar ebbe legate tutte le cinghie, e dopo essersi assicurato che tutto era in ordine, cominciarono a salire lentamente. Alvin si voltò un attimo a guardare con occhi di desiderio la vettura che spariva alla loro vista, chiedendosi quante ore sarebbero trascorse prima di potersi abbandonare di nuovo su quei comodi cuscini.

Nonostante ciò, era piacevole salire col sole che batteva sulla nuca e vedere che al di sotto il paesaggio si faceva sempre più ampio. Stavano percorrendo un sentiero poco battuto che spariva di tanto in tanto, ma Hilvar riusciva a seguirlo anche quando Alvin credeva che se ne fosse perduta la traccia. Hilvar spiegò che il sentiero era stato fatto da certe bestiole che vivevano su quelle colline, alcune solitarie, altre in piccole comunità che riproducevano vagamente gli schemi della società umana. Alcune avevano persino scoperto, o lo avevano appreso da altri, l’uso degli utensili e del fuoco. Ad Alvin non venne mai il sospetto che quelle creature potessero anche essere ostili. Tutti e due, sia lui che Hilvar, davano per scontato il contrario. Da tempi immemorabili, nessuno aveva mai cercato, sulla Terra, di ostacolare la supremazia dell’Uomo.

Camminavano da circa mezz’ora quando Alvin colse nell’aria un lontano mormorio. Non riusciva a stabilirne l’origine, poiché non pareva venire da alcuna particolare direzione. Era un brontolio incessante, che aumentava a mano a mano che il paesaggio si allargava sotto di loro. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni a Hilvar, ma preferiva risparmiare il fiato per cose più essenziali.

Alvin era sanissimo, anzi non aveva mai conosciuto un’ora di malessere in tutta la sua vita. Ma la robustezza non era sufficiente per quella sfacchinata; occorreva l’esercizio. I passi leggeri di Hilvar, l’agilità con la quale si arrampicava su per il pendio, lo riempivano d’invidia. Era deciso a non darsi per vinto finché gli fosse restato un po’ di fiato. Sapeva benissimo che Hilvar lo stava mettendo alla prova, ma non era offeso. La competizione era in un certo senso divertente e Alvin ne apprezzava lo spirito, anche se cominciava a sentire i muscoli indolenziti.

A due terzi di strada Hilvar s’impietosì e propose una piccola sosta. Il brontolio era fortissimo, ora, ma Hilvar rifiutò di dare spiegazioni. Voleva fare una sorpresa ad Alvin, disse, e non intendeva rovinare tutto.

Per fortuna l’ultimo pezzo di strada saliva dolcemente. Gli alberi che coprivano la parte bassa della collina si erano diradati, come stanchi di combattere contro la forza di gravità, e negli ultimi cinquecento metri il terreno era coperto da un’erba grassa e folta su cui era piacevole camminare. Hilvar bruciò le ultime energie guadagnando di corsa la cima. Alvin ignorò la sfida. Era già molto se ce la faceva a continuare la salita, e appena ebbe raggiunto Hilvar si lasciò cadere soddisfattissimo a fianco dell’amico.

Solo quand’ebbe ripreso un po’ di fiato fu in grado di ammirare il panorama che si stendeva ai suoi piedi e di scoprire l’origine del tuono che ora riempiva l’aria. Poco lontano il terreno scendeva ripido sulla pianura, tanto ripido da diventare, in breve, una parete quasi verticale. E proprio dalla cresta della collina scaturiva un potente nastro d’acqua che andava a perdersi tra le rocce dopo un salto di circa trecento metri. Là si frangeva in una miriade di spruzzi scintillanti, mentre dalla profondità si levava quel tuono incessante che si ripercuoteva in sordi echi tra le colline.

Quasi tutta la cascata era in ombra, ma i raggi del sole riuscivano ancora a illuminare il terreno sottostante, dando un magico tocco finale alla scena.

Alla base della cascata, vibrante in tutta la sua sfumata bellezza, si alzava l’arcobaleno, l’ultimo arcobaleno della Terra.

Hilvar mosse il braccio in un gesto che abbracciava l’intero orizzonte.

«Di qui» disse, alzando la voce per farsi udire sopra il frastuono della cascata «è possibile vedere tutta Lys.»

A nord si stendevano chilometri e chilometri di foresta, rotta qua e là da radure, da campi, e dai nastri serpeggianti di centinaia di fiumi. Nascosto in qualche angolo del vasto panorama doveva esserci il villaggio di Airlee, ma era inutile cercarlo. Alvin ebbe la sensazione di vedere lo scintillio del lago presso cui correva il sentiero che portava all’ingresso di Lys, poi si convinse che i suoi occhi lo avevano ingannato. Più lontano, sempre a nord, piante e radure si confondevano in un tappeto a macchie verdi rotto qua e là dalle cime delle colline. Dietro tutto questo, all’estremo limite dell’orizzonte, le montagne che dividevano Lys dal deserto si allungavano come un banco di nuvole.

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