Ritirai il cappello e il cappotto dall’attaccapanni. La bionda mi aprì la porta.
— È stato molto gentile a venirmi a trovare — mi disse. — Spero che tornerà.
Uscii, ma non vidi il taxi. Al suo posto c’era una lunga Cadillac bianca.
— Dov’è finito il mio taxi? — chiesi. — Avevo detto all’autista di aspettarmi.
— L’abbiamo pagato e mandato via — rispose la ragazza. — Tanto, non le serviva più. Questa sarà la sua macchina. Dal momento che lavora per noi…
— Completa di bomba? — le chiesi.
Sospirò: — Come devo fare per farle capire? Diciamolo in modo brutale: finché ci sarà utile, nessuno le farà del male. Se si metterà al nostro servizio, ci prenderemo cura di lei a vita.
— Vale anche per Joy Kane? — chiesi.
— Se vuole, anche per lei. — Mi guardò con i suoi occhi di ghiaccio. — Ma se tentate di fermarci, di ostacolarci…
E fece il suono, e il gesto, di una lama che taglia una gola.
Mi avviai verso la Cadillac.
Nei sobborghi della città mi fermai a un piccolo centro commerciale per comprare il giornale. Volevo sapere se Gavin era riuscito ad avere notizie più dettagliate sugli ammanchi di denaro dalle banche.
Potevo dirglielo io quel che stava accadendo, ma non mi avrebbe ascoltato, come gli altri. Avrei potuto andare al giornale e scrivere il mio articolo più sensazionale, ma non sarebbe stato pubblicato. E anche ammettendo che l’avessero stampato, chi mi avrebbe preso sul serio?
Prima di scendere dalla macchina, cercai nella tasca della giacca un biglietto da 10 dollari, dato che da 5 non ce n’erano.
Sfogliando le banconote mi chiesi, a puro titolo di curiosità, quanto denaro avessi. Non ne avevo idea, e, del resto, non importava. Il denaro avrebbe cominciato a perdere tutto il suo valore entro poche settimane, forse entro pochi giorni. In breve l’avrebbe perso del tutto. Sarebbe diventato cartaccia. Non potevi né mangiarla né usarla per vestirti né poteva ripararti dal vento o dalle intemperie. Perché non era altro, non era mai stato altro, che uno strumento creato dall’uomo per sostenere il suo peculiare sistema di cultura e di vita. Di fatto, non aveva altro significato delle tacche sul calcio di una pistola o dei graffiti sui muri. In ogni caso, nulla più di un complicato pallottoliere.
Entrai nel drugstore e presi un giornale dalla pila ammucchiata sul banco: in prima pagina c’era la fotografia del Cane, sorridente e felice come una Pasqua.
Non ebbi alcun dubbio che fosse lui. L’avrei riconosciuto dovunque. Era stato ripreso in posa, come un allegro compagnone, davanti alla Casa Bianca.
Ma la bomba era il titolo:
CANE PARLANTE CHIEDE DI CONFERIRE CON IL PRESIDENTE
— Signore — disse il negoziante — lo vuole o no il giornale?
Gli porsi la banconota, che lui guardò perplesso.
— Non li ha spicci? — chiese. Risposi di no.
Mi diede il resto, che misi in tasca insieme al giornale, e tornai alla macchina. Volevo leggere l’articolo, ma solo in macchina, non sapevo neanch’io perché. Comunque volevo sedermi tranquillamente e leggerlo senza l’ansia di essere disturbato.
La storia era molto interessante, forse fin troppo.
Raccontava di come il Cane fosse arrivato a Washington per conferire con il presidente. Era passato inosservato dall’ingresso esterno, ma, quando aveva tentato di entrare alla Casa Bianca, le guardie l’avevano cacciato. Se ne era andato riluttante, cercando di spiegare, in modo canino, che non voleva creare pasticci, ma che sarebbe stato molto grato di vedere il presidente. Aveva tentato un paio di volte di passare, finché le guardie non avevano deciso di chiamare l’accalappiacani.
Quando questi era arrivato, il Cane se n’era andato con lui, tranquillo e scodinzolante. Ma poco dopo l’accalappiacani era tornato portandolo con sé, e aveva spiegato che sarebbe stata una buona idea presentare la bestia al presidente. Il Cane (aveva detto) gli aveva parlato , spiegandogli che per lui era molto importante poter incontrare il capo dell’esecutivo.
Le guardie erano andate al telefono e poco dopo, mentre il cane veniva trattenuto, l’accalappiacani era stato trasferito in un ospedale, dove veniva tenuto tuttora sotto osservazione. Una guardia aveva poi spiegato con molta enfasi al Cane che gli sembrava piuttosto ridicola la speranza di poter essere ricevuto dal presidente.
L’articolo continuava dicendo che l’animale era sempre stato molto calmo, e si era comportato educatamente. La bestia si era accucciata fuori della Casa Bianca, senza dar noia a nessuno, neanche agli scoiattoli che passeggiavano sul prato.
“Il nostro inviato”, concludeva l’articolo, “ha provato a parlargli. Gli ha posto varie domande, alle quali il cane non ha risposto, limitandosi a sorridere”.
E adesso il Cane se ne stava lì, in prima pagina, con tutta la sua possanza. Un arruffato simpaticone, che però nessuno si sarebbe sognato di prendere sul serio.
Non era colpa del giornalista che aveva scritto l’articolo, se la cosa appariva inverosimile. Come inverosimile sarebbe stata la notizia delle palle da bowling che rotolavano sulla faccia della Terra di cui volevano impossessarsi.
Se la minaccia avesse avuto contorni cruenti o spettacolari, avrebbero capito. Invece non li aveva, e questo la rendeva ancora più mortale.
Stirling aveva parlato di esseri extra-ambientali, e proprio questo erano gli alieni. Potevano adattarsi a tutto; potevano assumere qualsiasi aspetto; potevano assimilare e usare ai loro fini ogni forma di pensiero; potevano piegare alle loro iniziative qualsiasi sistema economico, politico o sociale. Erano “cose” ad altissima flessibilità: sarebbero riuscite ad adattarsi a qualsiasi situazione che avessimo escogitato per combatterle.
Era perfino possibile che non ci trovassimo di fronte a molti esseri-bocce, ma a un unico, gigantesco organismo in grado di suddividersi e di assumere tutte le forme necessarie ai suoi scopi, rimanendo però sempre se stesso, consapevole di tutto quello che le sue parti stavano facendo.
Come opporsi a una cosa del genere?
Sebbene, se si fosse trattato di un unico organismo gigantesco, c’erano alcune sfaccettature che era difficile comprendere. Perché quella ragazza senza nome mi stava aspettando a casa Belmont al posto di Atwood?
Non sapevamo niente di loro, e non c’era tempo per studiarli. Ed era una conoscenza assolutamente indispensabile, perché la vita e la cultura di un tale nemico erano sicuramente complesse e specifiche quanto le nostre.
Potevano trasformarsi a piacere. Potevano perfino vedere nel futuro, sebbene in modo approssimativo, o almeno così sembrava. Erano lì in agguato, e ci sarebbero rimasti finché ne avessero avuto la possibilità. Era ammissibile, mi chiesi, che l’umanità corresse verso la propria fine, senza sapere chi ve la stava spingendo?
E io, mi chiesi, cosa posso fare?
Avrei dovuto gettar loro quel denaro in faccia, lanciando contro di loro la mia sfida. Sarebbe stato molto umano, forse anche facile. Ma ero così paralizzato dalla paura che non ero stato capace di fare alcunché.
Mi accorsi con stupore, in realtà, di averli sempre considerati un “loro”, non come una singola lei o un lui, come Atwood o la ragazza senza nome. Questo significava che il loro travestimento umano era più trasparente di quanto sembrasse?
Ripiegai il giornale, lo misi sul sedile e avviai il motore.
Non era il momento per gesti eroici. Era il momento di rare il possibile, non importa quali sarebbero state le apparenze. Se, fingendo di collaborare, avessi appurato qualcosa, qualche minimo indizio che potesse aiutare l’umanità, quella era la strada giusta da seguire. Se fossi arrivato al punto di propagandare le loro idee, non potevo forse eludere la loro sorveglianza, inserendo messaggi in codice che a loro sarebbero sfuggiti, mentre sarebbero risultati chiarissimi agli uomini?
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