Clifford Simak - Camminavano come noi

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Camminavano come noi: краткое содержание, описание и аннотация

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La crisi degli alloggi, che deve essere molto sentita anche negli Stati Uniti, ha probabilmente ispirato a Clifford Simak questo suo recentissimo libro, dove si dimostra come la sempre più difficile situazione in cui si trovano gli abitanti delle moderne metropoli possa avere, in realtà, un’origine extraterrestre, possa dipendere dalle oscure manovre di una razza d’invasori spaziali. E che l’umanità debba infine la sua salvezza non alla propria intelligenza o alle proprie armi, ma a un’altra «razza», tra le meno nobili del nostro pianeta, non è che una delle molte trovate di questo ironico e movimentato romanzo.

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— A proposito di che?

— Non saprei — rispose Joy, già immaginando dove volessi andare a parare. — Pare che le banche siano a corto di liquidi. Per quanto ne sapp…

— A corto di liquidi! Ma se ieri Dow mi ha detto che traboccavano di contanti!

— Forse era vero ieri — disse lei — oggi non più. Sono scomparse grosse somme. Ieri a mezzogiorno ce le avevano, ma alla chiusura hanno constatato la scomparsa di ingenti capitali. Semplicemente svaniti.

— E nessuno canta — tirai a indovinare.

— Esatto. I contatti di Gavin e Dow cadono dalle nuvole. I pezzi grossi sono introvabili, sai come sono i banchieri di sabato.

— Tutti a giocare a golf o a pesca.

— Parker, pensi che c’entri Atwood?

— Non so — risposi. — Però non me ne stupirei. Darò un’occhiata in giro.

— Che pensi di fare? — mi chiese, alzando lievemente il tono.

— Potrei tornare a casa Belmont. Atwood ha detto…

— Non mi piace — disse seccamente. — Ci sei già stato una volta.

— Non mi esporrò, te lo prometto. So come maneggiare Atwood.

— Ti serve una macchina.

— Prenderò un taxi — risposi.

— Senza soldi?

— Dirò al taxista di aspettarmi per il ritorno. Poi lo pagherò al giornale.

— Pensi a tutto, eh?

— Più o meno.

Riagganciando, mi domandavo se ero veramente in grado di pensare a tutto.

30

Per prima cosa, notai che la finestra era stata chiusa. L’avevo lasciata aperta la sera prima, e mi ero sentito ridicolmente colpevole di quella mancanza. Adesso invece era chiusa, con tanto di tende, e cercai invano di ricordarmi se c’erano anche la sera prima.

La casa, alla luce del giorno, appariva in tutta la sua decrepitezza. Da est arrivava lo sciabordìo delle onde del lago. Non c’era nulla da temere, continuavo a ripetermi, era la solita vecchia villa con le ossa che biancheggiavano al sole.

— Allora, devo aspettarla? — mi chiese l’autista.

— Sì, non starò molto — risposi.

— Dottò, dipende da lei. Per me, fa lo stesso. Ricordi che il tassametro cammina.

Mi avviai lungo il vialetto. Le foglie secche crepitavano sotto le mie suole.

Decisi che avrei anzitutto tentato di farmi ricevere secondo le usanze civili, cioè suonando il campanello. Se non fossi riuscito a entrare in quel modo, sarei passato dalla finestra, come la sera prima. Forse l’autista si sarebbe chiesto casa facevo, ma non erano affari suoi. Lui doveva solo aspettare.

Tuttavia poteva darsi che la finestra fosse chiusa dall’interno. Ma non mi sarei arreso. Niente poteva fermarmi, benché, se me lo fossi chiesto, non avrei saputo spiegare perché sentissi tanta urgenza di vedere Atwood. Era l’istinto a spingermi? Era un tema a cui aveva accennato Joy… o era stato Atwood? Non ricordavo. Comunque, era l’istinto a portarmi verso di “lui”, senza uno straccio di idea di cosa gli avrei detto, o di che scopo mi prefiggessi?

Salii gli scalini, suonai il campanello, attesi. Mentre stavo per suonare di nuovo, udii dei passi nell’ingresso.

Mi tornò in mente che il campanello non funzionava la sera prima. Era addirittura mezzo staccato, e ballava sotto il mio dito mentre tentavo di suonarlo. Ora invece funzionava, e la finestra era stata chiusa, e qualcuno veniva ad aprire.

Mi aprì una ragazza. Una cameriera in grembiule nero, con colletto e crestina inamidati. Restai a bocca aperta. La ragazza non si mosse, in attesa che parlassi. Aveva uno sguardo sbarazzino.

— Desidero vedere il signor Atwood — dissi finalmente.

— Si accomodi, prego.

Anche dentro trovai una bella differenza. La notte precedente, c’erano polvere e disordine dappertutto, con lo scarso mobilio coperto da panneggi. Adesso aveva l’aspetto di una casa abitata. Niente più polvere, i pannelli di legno alle pareti e i pavimenti erano tirati a lucido. In un angolo, un attaccapanni vuoto, con accanto un grande specchio perfettamente terso.

— Dia a me — disse la cameriera, indicando cappello e cappotto. — La signora è nello studio.

— Ma era Atwood che…

— Il signor Atwood non c’è — mi disse.

Mi prese il cappello di mano, aspettando che le porgessi il cappotto. Glielo diedi.

— Da questa parte, prego — indicò quindi.

Attraverso una porta già aperta, passai in una camera ricoperta di scaffali pieni di libri. Vicino alla finestra, seduta a un tavolo, rividi la bionda glaciale che avevo incontrato al bar, quella che mi aveva dato il biglietto da visita con la scritta “Trattiamo qualsiasi affare”.

— Buongiorno, signor Graves — mi salutò. — Lieta di rivederla.

— Atwood mi ha detto di…

— Il signor Atwood, purtroppo, non è più con noi.

— E lei, naturalmente, aspira alla successione.

Avvertivo di nuovo la sua freddezza, e il profumo di violette. Era per metà una dea nordica, per metà una segretaria superefficiente. E ancora, una cosa da un altro mondo, e una bambola che avevo tenuto in mano.

— Stupito, signor Graves?

— Non molto. Ormai non mi stupisco più di niente.

— Speravamo che sarebbe venuto a parlare con Atwood. Abbiamo bisogno di gente come lei.

— Voi avete bisogno di me come io ho bisogno di una seconda testa — commentai.

— Perché non si accomoda, signor Graves? E per favore, non faccia sempre lo spiritoso.

Presi posto di fronte a lei, di là del tavolo.

— Cosa vuole che faccia? — le chiesi. — Che cada in ginocchio e mi metta a piangere?

— Non occorrono pagliacciate — disse. — Sia semplicemente se stesso, e cerchiamo di parlare come fossimo due esseri umani.

— Cosa che lei non è, ovviamente.

— No, signor Graves. Non lo sono.

Rimanemmo a fissarci, e mi sentivo maledettamente a disagio. Dal suo volto non traspariva la minima emozione: era una bellezza scolpita.

— Se lei fosse stato un uomo diverso, avrei cercato di farle dimenticare che non appartengo alla sua razza — dichiarò. — Ma con lei non sarebbe servito a niente.

Scossi la testa. — Mi spiace — le dissi. — Realmente, mi creda. Niente mi piacerebbe di più che poter pensare a lei come un’umana.

— Se fossi una donna reale, signor Graves, questo sarebbe il più bel complimento che potrei mai ricevere.

— Ma siccome non lo è…?

— Resta pur sempre un complimento.

La guardai con attenzione, per quel che aveva detto e per come l’aveva detto. — Forse, dopotutto, qualcosa di umano c’è, in lei — dissi.

— No — disse — non prendiamoci in giro l’un l’altro. Fondamentalmente, lei mi dovrebbe odiare, e credo che mi odii, sebbene forse non del tutto. E fondamentalmente io dovrei disprezzarla, ma in tutta onestà non è così. Dovremmo poter discutere con un minimo di sangue freddo.

— Perché con me? Ci sono tanti altri…

— Lei è uno dei pochi che sanno qualcosa su di noi, signor Graves. Uno dei pochissimi al mondo, lei non crederebbe a quanto è grande questo privilegio.

— Però devo tenere il becco chiuso — osservai.

— Certo, signor Graves. Lo sa meglio di me. Del resto, quante persone le hanno creduto finora?

— Una, per l’esattezza — risposi.

— La sua ragazza, immagino. Perché vi amate.

Annuii.

— Lo vede? L’unico credito che ottiene è per motivi sentimentali.

— Avrei scommesso che lo avrebbe detto — ribattei, ma sentendomi un idiota.

— Suvvia, parliamo di lavoro — proseguì. — Diciamo che le offriamo la possibilità di fare il miglior affare della sua vita. Se non fosse stato al corrente della nostra esistenza, non saremmo venuti a cercarla. Ma dato che lo è, non abbiamo niente da perdere.

— Un affare? — chiesi stupidamente.

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