Clifford Simak - Camminavano come noi

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Camminavano come noi: краткое содержание, описание и аннотация

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La crisi degli alloggi, che deve essere molto sentita anche negli Stati Uniti, ha probabilmente ispirato a Clifford Simak questo suo recentissimo libro, dove si dimostra come la sempre più difficile situazione in cui si trovano gli abitanti delle moderne metropoli possa avere, in realtà, un’origine extraterrestre, possa dipendere dalle oscure manovre di una razza d’invasori spaziali. E che l’umanità debba infine la sua salvezza non alla propria intelligenza o alle proprie armi, ma a un’altra «razza», tra le meno nobili del nostro pianeta, non è che una delle molte trovate di questo ironico e movimentato romanzo.

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— Non ci guadagnerà nulla — lo interruppi. — Dovunque andrete, la situazione sarà la stessa.

— Ma cosa diavolo sta succedendo? — esclamò Quinn in tono disperato.

— Non lo so — risposi. Non volevo dirgli nulla. Gli avrei fatto più male. Era meglio che non sapesse. Almeno per ora.

E presto sarà così dappertutto, pensai. La popolazione mondiale sarebbe diventata un’immensa carovana di nomadi, vagante qua e là alla ricerca di un posto migliore. Ma non ci sarebbe stato nessun posto “migliore”. Prima si sarebbero riuniti in gruppi familiari, poi avrebbero formato dei clan più allargati. Alla fine un buon numero di uomini sarebbero stati rinchiusi in riserve, come unica risorsa rimasta ai governi ancora in vigore. Fino alla fine però sarebbero esistite bande di vagabondi, tutte impegnate a strapparsi il cibo di mano l’una con l’altra. Tanto per cominciare, ogni rifugio sarebbe stato considerato lecito, che si trattasse della propria casa o di quella altrui. All’inizio avrebbero lottato per il cibo, rubandolo e ammassandolo da qualche parte. Poi però gli alieni avrebbero cominciato a distruggere case e depositi, in qualità di “legittimi proprietari”. Unica reazione rimaneva una guerriglia clandestina. Intanto, gli alieni si sarebbero sentiti con la coscienza a posto, perché era tutto perfettamente legale, e avanti con le distruzioni. Nessun modo per ribellarsi, almeno non a breve termine. Come combattere contro gli Atwood? Contro le palle da bowling? Li si poteva solo odiare. Sfuggenti, difficili da uccidere, sempre in grado di battere in ritirata su qualche altro mondo.

A un certo punto non ci sarebbero più state case né cibo. Chissà, forse l’Uomo avrebbe trovato lo stesso un modo per sopravvivere. Ma dove prima c’erano mille persone, ora ne sarebbe rimasta solo una. Quel giorno, gli alieni avrebbero vinto una guerra senza neppure combattere. L’Uomo si sarebbe ridotto a un imboscato sul pianeta di cui era stato il signore.

— Non mi ha detto il suo nome — chiese l’assicuratore.

— Graves — risposi.

— Ebbene, Graves, che mi dice? Cosa dobbiamo fare?

— Quello che avreste dovuto fare sin dall’inizio. Entriamo qui. La vostra famiglia avrà un tetto, potrà cucinare, potrà fare il bagno.

— Ma sarebbe un reato! — osservò.

Era vero. Anche se messo con le spalle al muro, l’uomo onesto ha sempre rispettato la legge sulla proprietà. Non si ruba. Non ci si introduce in casa altrui. Non si tocca la roba d’altri. Erano proprio queste leggi, che continuavamo a rispettare anche mentre ci si ritorcevano contro, che ci avrebbero privati dei più elementari diritti.

— Le serve un posto dove far dormire i ragazzi — gli dissi. — La bella stagione è finita.

— Ma se ci vedesse qualcuno…

— Se viene qualcuno e cerca di cacciarvi — dissi — accoglietelo a fucilate.

— Non ho un fucile — osservò.

— Ne compri uno — gli consigliai. — Domani mattina, subito, non se lo scordi.

Mi colpì la facilità con cui, da cittadino ligio alle leggi, mi fossi trasformato in uomo pronto a stabilire un’altra legge, e a difenderla o a morire per essa.

29

Mi svegliai ai raggi del sole che penetravano attraverso le veneziane. Mi trovavo in una camera silenziosa, confortevole, che mi ci volle un po’ per riconoscere.

Rimasi sdraiato con gli occhi semichiusi, senza pensare a nulla, senza far nulla. Mi inebriavo della luce del sole e godevo di quel silenzio, del letto soffice, e del sottile profumo che aleggiava nell’aria.

Sembrava proprio il profumo di Joy…

— Joy! — chiamai improvvisamente, tirandomi su sul materasso. Di colpo ricordai tutto: la nottata, la pioggia, e tutto il resto.

La porta della camera vicina era aperta, ma non c’erano segni di vita.

— Joy! — gridai, buttandomi giù dal letto.

Il pavimento era freddo e dalla finestra aperta arrivava un soffio gelido.

Andai alla porta di collegamento con l’altra camera e lanciai un’occhiata. Il letto era disfatto. Ma Joy non c’era. C’era invece un suo biglietto attaccato allo stipite della porta con uno spillo. Diceva:

Caro Parker,

ho preso la macchina per andare al giornale. Devo completare un artìcolo per l’edizione di domenica. Tornerò nel pomeriggio. Dov’è finita la tua vantata intraprendenza con le donne? Non mi hai neanche fatto un’avance.

Joy

Tornai a sedere sul bordo del mio letto. Pantaloni, camicia e giacca erano buttati di traverso su una sedia. Sotto c’erano le scarpe, con i calzini arrotolati all’interno. In un angolo c’era il fucile che mi aveva restituito Stirling. Mi ricordai che era in macchina, quindi l’aveva portato dentro Joy prima di andare in ufficio.

Sarebbe tornata nel pomeriggio, diceva, ed era uscita senza rifare il letto. Come se desse per scontato che saremmo stati costretti a vivere in quel modo, d’ora in avanti. Non c’era altra via d’uscita, e lei si adattava.

Anche l’Uomo forse avrebbe dimostrato la stessa capacità di adattamento. Felice di trovare una soluzione in mezzo alla situazione più disperata. Dopo qualche tempo, però, non sarebbero subentrate la rabbia e l’amarezza, e la consapevolezza che tutto era finito?

Joy era andata in ufficio a rifinire l’articolo per l’edizione della domenica. Il nostro vicino aveva continuato a lavorare per le assicurazioni, anche se il suo mondo gli stava crollando attorno. Naturalmente, erano cose da fare, perché bisogna pur campare, e quindi il denaro serve sempre. Ma forse, pensai, agivamo così per un motivo diverso: per non perdere il contatto con la realtà, per crearci l’illusione che solo una parte della nostra vita era cambiata, mentre rimaneva immutato l’ordinato tran-tran quotidiano.

E io… io che intendevo fare?

Potevo tornarmene in ufficio, sedermi alla scrivania e buttare giù qualche articolo in vista del prossimo viaggio. Il viaggio! Chi ci pensava più. Era un pensiero buffo, che sembrò spuntare come un fungo, o emergere dalle nebbie di un’epoca immemorabile.

Ok allora, potevo tornare in redazione. Ma, in seconda battuta, a che scopo? A scrivere articoli che nessuno avrebbe mai letto, dato che nel giro di pochi giorni il giornale avrebbe smesso di uscire? Era tutto così dannatamente futile. La tentazione di rimuovere quel pensiero era foltissima. Forse era questo il profondo motivo per cui nessuno voleva ascoltare quella storia.

Lasciai cadere il biglietto di Joy sul pavimento. Andai alla sedia e afferrai la camicia, ancora non sapendo cosa avrei fatto. Prima però, di sicuro, dovevo vestirmi.

Uscii di casa e mi fermai sulla soglia, compiacendomi della bellissima giornata di sole, più primaverile che autunnale. Non pioveva più, il cortile era asciutto, salvo qualche piccola pozzanghera. Era quasi mezzogiorno.

Vidi la macchina dell’assicuratore vicino al secondo edificio, ma nessuna traccia di lui e dei suoi familiari. Era sabato, giorno di riposo, e probabilmente dormivano fino a tardi. Un riposo ben meritato, dopo tante traversie.

Vedendo l’insegna di un ristorante sulla strada, mi resi conto di aver fame. Di là potevo anche dare un colpo di telefono a Joy.

Era semplicemente una tavola calda, neppure troppo linda, ma il posto era affollato. Mi avvicinai al banco e dovetti attendere che un altro finisse, per prendere posto sul suo sgabello.

Ordinai, poi mi feci strada a spintoni verso la cabina telefonica, in un angolo. Composto il numero, introdussi i gettoni, e chiesi alla centralinista di passarmi Joy.

— Hai finito il pezzo? — le chiesi.

— Dormiglione — scherzò. — A che ora ti sei alzato?

— Poco fa. Che c’è di nuovo?

— Gavin è di umore nero. Sente odore di scoop nell’aria, ma non riesce a metterci sopra le zampe.

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