E se la donna che mi aspettava in macchina non fosse…
Follia, follia, mi dissi. Ridicolo. Solo fantasie frustrate di un cervello a pezzi.
Riabbassai il ricevitore e mi alzai tremando. Quindi scesi da Joy che mi aspettava.
La scritta luminosa, verde e rossa, di TUTTO OCCUPATO lampeggiava sul nero dell’asfalto della strada umida di pioggia, come per dare un allarme al mondo. Dietro occhieggiava la massa scura dei complessi residenziali dei motel, ognuno con la lampada sopra l’ingresso e di fronte la lucida distesa dei tettucci delle auto parcheggiate.
— Nessun posto… — disse Joy. — Sembra di essere ospiti sgraditi.
— Infatti.
Era già il quinto motel che passavamo, con TUTTO OCCUPATO. Non tutte le insegne erano intermittenti, però erano tutte ben visibili. E il loro significato era chiaro. Non c’erano possibilità di alloggio.
Cinque motel con l’insegna luminosa. Uno invece buio, abbandonato, chiuso per tutti.
Fermai, tra uno stridore di freni e una leggera scivolata. Osservammo l’insegna.
— Avremmo dovuto immaginarlo — disse Joy. — Sono tutti pieni di gente rimasta senza casa. Ci hanno preceduto, magari da settimane.
Pioveva ancora. Il tergicristallo cigolava.
— Forse è stata una cattiva idea — dissi. — Però, se…
— No. Nessuna delle nostre case, Parker. Ci morirei.
Ripartimmo. Altri due motel, stessa storia di prima.
— Impossibile — disse Joy. — Nessun posto, nessuno. E con gli alberghi sarebbe lo stesso.
— Uno c’era — dissi. — Quello che abbiamo superato prima, quello chiuso.
— Ma era tutto buio. Non c’è nessuno là.
— In compenso è un posto riparato. Se non altro, ci offrirebbe un tetto. Il tizio alla capanna sul lago ha rotto un lucchetto, nessuno ci impedisce di imitarlo.
Non arrivava nessuno, invertii marcia di colpo in mezzo all’isolato.
— Ricordi dov’era? — chiese Joy.
— Mi pare di sì.
In realtà, lo sbagliai di un paio di isolati, ma alla fine ci arrivai. Senza insegna, senza luci, deserto.
— Qualcuno l’ha comprato e chiuso — dissi. — La procedura è molto più facile e veloce che con gli appartamenti, dove occorre dare il preavviso.
— Lo credi davvero? — chiese Joy. — Credi che Atwood abbia rilevato anche questo posto?
— Chi altri? — domandai. — Se l’avesse comprato qualcun altro, pensi che l’avrebbe tenuto chiuso, con tutto il giro d’affari che si è creato?
Percorremmo il viale d’ingresso. I fari illuminarono un’altra macchina, parcheggiata di fronte a un edificio del complesso.
— Qualcuno ha avuto la nostra stessa idea — osservò Joy.
— Niente panico — le dissi.
Fermai la macchina nel cortile con i fari accesi, in direzione dell’altra automobile. Attraverso i vetri rigati di pioggia, vidi alcune facce che ci osservavano. Facce pallide e intimorite.
Smontai. Un uomo, sceso dall’altra macchina, mi venne incontro.
— Se cerca un alloggio, qui non c’è — mi disse.
Era di mezza età, ben vestito. Indossava un cappotto nuovo e un cappello di marca. Sotto il cappotto portava un abito scuro, da uomo d’affari. Il tutto un po’ spiegazzato. Sulle scarpe lucidate di fresco, le gocce di pioggia brillavano alla luce dei fari.
— Lo so che non ce n’è da nessuna parte — continuò. — E non da ieri, ma da un pezzo.
Scossi la testa, sentendo un senso di vuoto allo stomaco. Eccone un altro. Un altro.
— Sa spiegarmi che cosa sta succedendo? — mi chiese. — Non mi sembra un poliziotto. E poi, anche se lo fosse…
— Non lo sono — precisai.
Nella voce dello sconosciuto c’era una nota isterica. Era la voce di un uomo all’ultima spiaggia, che ha visto crollare il suo mondo personale costruito con fatica, pezzo per pezzo, giorno per giorno, senza poter far niente per arrestarne la rovina.
— Sono uno come lei, in cerca di un riparo — continuai, ricordando perché fossimo lì.
Spiace dirlo, ma non ci fece caso.
— Mi chiamo John A. Quinn — si presentò. — Sono il vicepresidente di una compagnia di assicurazioni. Guadagno quarantamila dollari l’anno, e tuttavia non possiedo un tetto per riparare la mia famiglia dalla pioggia. A parte la macchina, intendo.
Mi guardò sorpreso. — Perché non ride? — mi chiese. — Su, una bella risata!
— Non c’è niente da ridere — risposi.
— Abbiamo venduto casa circa un anno fa — proseguì Quinn. — Mantenendo il diritto di abitazione ancora per un bel po’. Mi diedero di più di quanto osassi sperare. Ce ne serviva una più grande. La famiglia cresceva. Certo ci dispiacque vendere la nostra vecchia casa. Era bella, e ci eravamo abituati. Ma avevamo bisogno di più spazio.
Annuii. La solita storia.
— Be’, però non restiamocene qui sotto la pioggia — dissi.
Sembrò che non mi avesse sentito. Aveva bisogno di parlare, per liberarsi dal gran peso che lo soffocava. Forse ero il primo a cui si potesse rivolgere in condizioni di parità, perché anch’io cercavo alloggio.
— Chi l’avrebbe pensato? — continuò. — Sembrava facile. Abbiamo avuto anche tanto tempo per cercare una nuova abitazione. Ma non ce n’erano. Leggevamo gli annunci sui giornali, e arrivavamo sempre troppo tardi. Le case erano vendute prima che noi potessimo arrivare all’agenzia. Cercammo di interessare un costruttore, ma nessuno si impegnava a consegnare prima di due anni. Ho perfino tentato di corrompere qualcuno, ma senza successo. Tutto già prenotato, risposero. È incredibile, perché molte imprese avevano centinaia di abitazioni in progetto!
— Già, incredibile — dissi.
— Mi hanno spiegato che, se avessero avuto più operai, avrebbero potuto farmi una casa. Ma gli operai mancavano. Tutti occupati. Tutti in cantiere. Rimandammo la consegna della vecchia casa di un mese, di due, e infine di tre mesi, ma poi dovemmo sloggiare. Offrii al nuovo proprietario cinquemila dollari per annullare la vendita, ma non accettò. Disse che gli spiaceva, ma aveva comprato la casa perché ne aveva bisogno. Mi aveva già concesso tre mesi di dilazione e non poteva più aspettare. Aveva ragione. Ma non avevamo un buco dove andare. Non qui, intendo. Certo, potevamo mandare i ragazzi da qualche parente fuori città, ma potevamo dividere la famiglia? Alcuni parenti poi avevano già dei problemi per conto loro. Amici tanti, ma mica ci si può installare a casa loro. E neppure puoi fargli vedere come sei ridotto, c’è una dignità da difendere. Insomma, ho tentato dappertutto: alberghi e motel completi, niente camere in affitto. Ho pensato di comprare una roulotte: c’era una lunga lista di persone prima di me, disposte ad attendere, Dio santo, fino a cinque anni.
— Ed eccovi qui — commentai.
— Eh, sì — disse. — Almeno è fuori mano e tranquillo. Non passano macchine, perciò possiamo dormire. E non passa neanche gente. Però è dura, specie per mia moglie e i ragazzi. È un mese ormai che viviamo in macchina. Quando possiamo, mangiamo ai ristoranti, ma sono quasi sempre pieni. Perlopiù mangiamo in qualche drive-in. Altre volte compriamo qualcosa e andiamo in campagna a fare un pic-nic. Prima era uno svago, ora non attrae più neanche i ragazzi. Usiamo i bagni delle stazioni di servizio. Laviamo la biancheria alle lavanderie automatiche. Vado ogni mattina al lavoro con la macchina, poi mia moglie porta i ragazzi a scuola, e passa il tempo cercando casa, in attesa di riprendere i bambini da scuola. Poi vengono tutti all’ufficio, e insieme ci diamo alla ricerca di un posto dove cenare. Un mese, sempre così. Ma non ce la facciamo più. I miei figli continuano a chiedermi quand’è che avremo di nuovo una casa. L’inverno è alle porte. Dovremo trasferirci in un’altra città dove si possa trovare una sistemazione. Una casa, una pensione, qualunque cosa. Dovrò lasciare il mio posto…
Читать дальше