Le cose si mettevano bene per noi, ora. Tutti ormai erano venuti a conoscenza dell’esistenza delle palle da bowling aliene, e ci avrebbero dato retta: il Vecchio, il senatore, lo stesso presidente. Tutti. E si sarebbero prese le decisioni che andavano prese. Per esempio, si potevano immediatamente bloccare tutte le transazioni economiche, finché non si fosse riusciti a distinguere quelle aliene da quelle di orìgine umana. Gli atti legali degli alieni erano nulli, perché avevano pagato con moneta falsa. Ma, anche a non volerli dichiarare nulli, cambiava poco, perché presto il genere umano avrebbe scoperto che cosa stava succedendo, e avrebbe reagito di conseguenza. Bene o male, ci si sarebbe mossi per mettere la parola fine a questa vicenda.
Aprii lo sportello posteriore della macchina e feci cenno a Joy di salire.
— Su, muoviamoci — dissi a Higgins. — C’è tanto da fare. C’è una stona da raccontare.
Mi sembrava già di vedere la faccia del boss quando fossi entrato nel suo ufficio. Mi ripetevo mentalmente ciò che gli avrei detto. E stavolta mi avrebbe ascoltato, perché avevo lo scoop. In esclusiva.
— Non al giornale — corresse Joy. — Prima cerchiamo un medico.
— Macché medico! — esclamai. — Non mi serve più!
E rimasi meravigliato anch’io, non tanto per averlo detto, quanto per la facilità con cui accettavo il fatto che davvero non ce n’era più bisogno. Qualcosa era successo dentro il mio corpo senza che al momento me ne accorgessi. Me n’ero reso conto a poco a poco.
Non sentivo più alcun male. Niente dolore al torace, nulla all’addome, tutto a posto nelle ginocchia. Mossi le braccia per fare la controprova, e tutto era in ordine. Se c’era stato qualcosa di rotto, si era aggiustato.
Ricordai che il Cane aveva detto quanto fosse stupefacente constatare come molti risultati identici si possano ottenere con tecniche diverse.
— Grazie, amico! — dissi, guardando verso il cielo con un sentimentalismo che ricordava quello del Cane. — E non dimentichi di mandare il conto!
Fulmine mi gettò il giornale sulla scrivania, ancora fresco di inchiostro. In prima pagina, con un titolo a caratteri cubitali, campeggiava il mio articolo.
Rimasi a fissare quelle lettere, senza toccare il giornale. Poi mi avvicinai alla finestra e rimasi lì a guardare fuori. Verso nord scorsi la montagna di sfere, illuminata dai proiettori, che si stagliava netta contro il cielo, in continua crescita. Qualche ora prima si era perduta ogni speranza di salvare i radiocronisti rimasti intrappolati sul tetto del McCandless Building. Non si poteva far altro che aspettare.
Anche Gavin si avvicinò per guardare dalla finestra.
— A Washington pensano di far evacuare la città e di distruggerle con una bomba all’idrogeno. Ci è appena arrivato il dispaccio di agenzia. Attenderanno finché la montagna non cesserà di crescere, poi manderanno un bombardiere.
— A che scopo? — gli dissi. — Ora non potranno più fare danno. Erano un pericolo mortale solo quando ne ignoravamo l’esistenza.
Tornai alla scrivania. Guardai l’orologio da polso, senza ricordare che era ancora rotto. Quello a muro segnava le due e cinque del mattino.
Il capo, che fino ad allora era stato con i cronisti locali, si avvicinò e mi tese la mano. Gli porsi la mia, lui la strinse e vi si attaccò, scrollandomi il braccio con forza e con calore.
— Ottimo lavoro, Parker! — esclamò. — Lo apprezzo!
— Grazie, boss — risposi, ricordandomi che non gli avevo detto nulla di tutto ciò che avevo deciso di dirgli. Però, non mi dispiaceva di non averlo fatto.
— Andiamo a berci un goccetto nel mio ufficio — propose.
Scossi la testa in segno di diniego. Mi diede una pacca sulla spalla e mi lasciò andare.
Scesi di sotto, e mi fermai al tavolo di Joy.
— Andiamo, bella — le dissi. — Dobbiamo ancora concludere una certa questione.
Joy si alzò, aspettando il seguito.
— E vorrei concluderla — dissi — prima che questa notte finisca.
Temevo che si sarebbe offesa. Invece allargò le braccia e me le gettò al collo, davanti a tutti.
Viveste un miliardo di anni, non riuscirete mai a capire le donne.
FINE