Provai di nuovo, niente.
Anche se alzavo il piede dall’acceleratore, il che mi avrebbe dovuto far rallentare, continuavo invece a filare a cento all’ora.
Capii cosa stava succedendo. E perché il cane aveva latrato.
Quella in cui mi trovavo non era una vera automobile. Era una simulazione prodotta dagli alieni. Mi poteva tenere prigioniero all’infinito, e mi avrebbe portato dovunque volesse, e avrebbe fatto di me ciò che più le fosse piaciuto.
Con furia selvaggia, cercai di liberarmi le mani da quella morsa. Girai il volante per metà a destra e poi per metà a sinistra, sudando freddo al pensiero delle conseguenze che una simile manovra avrebbe potuto causare a quella velocità. Ma mi resi conto che la macchina non rispondeva affatto alle mie manovre, così come non aveva seguito i miei tentativi di frenare o decelerare. Era fuori del mio controllo.
Non poteva essere altrimenti, dato che non si trattava di un’automobile ma di un terrificante “qualcos’altro”.
Eppure ero convinto che, una volta, quella era una vera e propria macchina. Ed era rimasta tale, quel pomeriggio sulla collina, in presenza del fetore della puzzola, che aveva invece mandato in visibilio le palle da bowling. Non si era trasformata, non si era mossa.
In qualche modo, nelle ultime ore era avvenuto un cambiamento, probabilmente mentre mi trovavo a narrare i fatti a Charley Munz nella sua capanna. Infatti, al mio arrivo il cane non aveva reagito di fronte alla macchina, mentre aveva ringhiato al mio ritorno. Evidentemente qualcuno aveva sostituito alla vera Cadillac quell’ordigno infernale su cui ora mi trovavo prigioniero, lasciandolo nel cortile e portando via la mia macchina senza difficoltà, in assenza di testimoni. Ma, anche ce ne fossero stati, cosa avrebbero potuto fare, se non guardare incuriositi?
Per non destare sospetti, all’inizio mi avevano dato una vera macchina. Immaginavano che avrei dato una controllatina, e temevano che avrei notato qualche dettaglio incongruente. Ed era un rischio che non potevano permettersi, se volevano tendermi una trappola. Poi, quando si era dissipata la mia diffidenza, quando secondo i loro calcoli mi ero ormai convinto che quella macchina non avesse nulla di anomalo, l’avevano sostituita, sicuri che io non avrei avuto più alcun dubbio.
Forse anche loro avevano dei limiti, e ne erano consapevoli. Forse erano in grado di imitare solo l’aspetto esterno delle cose. E, anche in questo caso, con dei difetti. Per esempio, l’automobile che avevo abbattuto a fucilate aveva un unico faro, al centro del parabrezza. Quello però era stato un lavoretto arrangiato in fretta e furia. Probabilmente sapevano fare di meglio, ma sarebbe sempre rimasto loro il dubbio sulla loro effettiva competenza di meccanici, lasciandosi magari sfuggire qualche particolare che avrebbe fatto scoprire il trucco.
Così, avevano giocato sul sicuro. Ed erano stati premiati dalla loro strategia.
Così, ero là, inerme e spaventato dalla mia debolezza. Non strattonavo più, perché mi ero convinto che la robustezza di quelle appendici superasse le mie capacità fisiche. Ma esistevano altri sistemi per liberarsi, senza fare ricorso alla forza? Provai a pensarci. Parlare alla macchina? Apparentemente un’idiozia, ma se si trattava di un essere intelligente, per quanto nemico… Comunque lasciai perdere, probabilmente non era neanche equipaggiata per rispondere, anche se mi avesse sentito. E una conversazione a senso unico non sarebbe diventata altro che una supplica umiliante. Non ero disposto a pagare quel prezzo, neppure in quella situazione.
Mi dispiaceva così tanto. Non tanto per me stesso, quanto per tutti i miei piani che andavano a monte. Mi rammaricavo che quell’esile probabilità che c’era di sconfiggere gli alieni svanisse del tutto con la mia disfatta.
Incrociando altre macchine, gridavo per attirare l’attenzione, ma i cristalli della mia macchina, come del resto quelli delle altre, erano chiusi.
Percorremmo in quel modo parecchi chilometri prima di rallentare, girando per imboccare una strada laterale. Cercai di localizzare il punto, ma avevo perso il senso dell’orientamento. Era una strada stretta e tortuosa, che si snodava attraverso folti boschi, girando intorno a grossi massi che spuntavano dal terreno.
Guardando fuori intuii, più che riconoscere, il luogo dove eravamo diretti. Osservando con maggiore attenzione, il sospetto divenne certezza. La nostra meta era casa Belmont, dove tutto aveva avuto inizio. Forse mi aspettavano là, con un sorriso feroce.
Così, sarebbe stata la fine. A meno che, da qualche altra parte, qualcun altro non fosse intento ad affrontare gli stessi problemi. Lavorando da solo, ovviamente, perché — come me — non sarebbe stato creduto da nessuno. Sì, era assolutamente possibile, mi convinsi. Dove io avevo fallito, quest’altro forse ce l’avrebbe fatta.
Nella situazione disperata in cui mi trovavo mi attaccavo a quest’ultimo filo di speranza, anche se, passata la fantasia momentanea, razionalmente respingevo quell’ipotesi.
Superata slittando una curva, la macchina si trovò di fronte a una barriera di alberi. Le gomme uscirono di strada, stavamo per andare a sbatterci contro! La macchina accelerò, si inclinò con il muso all’insù…
E scomparve. D’improvviso non c’era più, e mi trovai sospeso in aria, solo, nel buio, letteralmente volando verso gli alberi.
Ebbi appena il tempo di emettere un urlo di terrore, prima di urtare contro un tronco che sembrava avventarsi contro di me nell’oscurità.
Faceva freddo. Un vento gelido mi strisciava lungo la schiena. Buio. Non si vedeva nulla. Sentivo di essere appoggiato su qualcosa di freddo e umido. Tutto indolenzito. Da qualche parte, in lontananza, arrivava l’eco di un lamento sinistro.
Tentai di muovermi, ma mi faceva male, così rimasi disteso al freddo e all’umidità. Non mi chiesi chi fossi e dove fossi, perché non faceva una gran differenza. Ero troppo stanco e sofferente per pensarci.
Rimasi disteso per non so quanto. Quel suono e quell’umidità erano svaniti, e l’oscurità mi inghiottì. Più tardi mi risvegliai di nuovo. Era ancora più buio, faceva ancora più freddo.
Tentai di nuovo qualche movimento e, pur dolorosamente, riuscii a stendere la mano, con le dita aperte, in cerca di un appiglio. Quando le richiusi, avevo stretto fra le dita qualcosa di soffice, che riconobbi al tatto: muschio e foglie morte.
Restai di nuovo immobile per un po’, lasciando filtrare lentamente la coscienza di dove fossi. Mi resi conto che mi trovavo in un bosco. Il lamento era quello del vento tra i rami; l’umidità era quella del sottobosco; l’odore, quello dell’autunno.
Non fosse stato per il freddo e gli arti doloranti, non era poi così male. Il luogo era piacevole, e sentivo male solo se mi muovevo. Se fossi riuscito a riassorbire anche il buio, sarebbe stato perfetto.
Ci provai, ma l’oscurità persisteva. Adesso cominciavo a ricordare la macchina uscita di strada dalla curva, e come fosse scomparsa lasciandomi a volare nel buio.
Ero vivo, pensai stupito, nonostante quell’albero che si era avventato contro di me.
Scossi dalla mano il muschio e le foglie. Appoggiai le palme a terra per sollevarmi, e cercando di spingere con le gambe. Gli arti funzionavano ancora. Non avevo niente di rotto, nonostante le fitte acute che mi prendevano dal ventre al torace.
“Loro” non mi avevano messo nel sacco, dopotutto: gli Atwood, le palle da bowling, o come diavolo li si volesse chiamare. Ero vivo, lontano da loro, e se fossi riuscito a raggiungere un telefono, facevo ancora in tempo a portare a termine il mio piano.
Cercai di alzarmi in piedi, ma non era facile. Mi spinsi su e rimasi dritto per un istante, sommerso da ondate di dolore. Poi i nervi cedettero, le ginocchia mi si piegarono sotto e ricaddi pesantemente a sedere, stringendomi tra le mie stesse braccia per ammortizzare il male.
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