Clifford Simak - Camminavano come noi

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Camminavano come noi: краткое содержание, описание и аннотация

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La crisi degli alloggi, che deve essere molto sentita anche negli Stati Uniti, ha probabilmente ispirato a Clifford Simak questo suo recentissimo libro, dove si dimostra come la sempre più difficile situazione in cui si trovano gli abitanti delle moderne metropoli possa avere, in realtà, un’origine extraterrestre, possa dipendere dalle oscure manovre di una razza d’invasori spaziali. E che l’umanità debba infine la sua salvezza non alla propria intelligenza o alle proprie armi, ma a un’altra «razza», tra le meno nobili del nostro pianeta, non è che una delle molte trovate di questo ironico e movimentato romanzo.

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Imboccai la statale che portava verso ovest, e pigiai forte sull’acceleratore. Li distaccai subito di un bel po’, sebbene non eccessivamente.

Davanti a me la strada si svolgeva in curve su per una collina, con una curva più stretta verso la cima. Mi ricordai che all’uscita di quella curva c’era una stradina laterale di campagna, poco battuta, in cui, con un po’ di fortuna, mi sarei potuto infilare e scomparire alla vista dei miei inseguitori.

Accelerai ancora, riuscendo a distanziarli maggiormente. Accelerando ancora di più, mentre l’altra macchina era dietro la curva, raggiunsi l’incrocio con la strada laterale. Diedi un violento colpo di freni, girai completamente lo sterzo. La macchina si aggrappò al terreno, mentre le ruote posteriori slittavano. Raddrizzai e diedi tutto gas.

La strada era a salti, tutto un susseguirsi di dossi e cunette. Dalla sommità del terzo dosso, nello specchietto retrovisore, vidi che gli inseguitori si stavano arrampicandosi sul secondo di essi.

Mi ero sentito così sicuro di averli seminati, che questo fu un brutto colpo. Uno shock. E una rabbia…

Improvvisamente scorsi una vecchia strada di campagna, interamente coperta dall’erba e quasi nascosta dai molti rami che la invadevano dagli alberi vicini.

Sterzai bruscamente, facendo saltare la macchina sul fondo stradale. I rami si chiusero come un sipario sul parabrezza, strisciando con forza contro il metallo della carrozzeria.

Guidai alla cieca, con le gomme che rimbalzavano sulla carreggiata semidistrutta. Infine mi fermai e smontai. Il fogliame copriva interamente la vista della macchina dalla strada.

Mi sfregai le mani, stavolta ero sicuro di averli ingannati.

Infatti la macchina nera superò la salita e si precipitò oltre, facendo un fracasso tremendo, che risuonò in quel silenzio pomeridiano. Doveva aver bisogno di una bella revisione.

Ma poi, con un prolungato stridìo di freni, si fermò al termine della discesa.

Non c’ero riuscito nemmeno questa volta. Sapevano che ero lì, nascosto da qualche parte.

Volevano il gioco duro. Bene. Aprii lo sportello, presi il fucile. La vecchia Betsy aveva sempre un aspetto rassicurante. Per un attimo mi chiesi se l’arma sarebbe servita a qualcosa contro quegli esseri, poi mi tornò in mente come Atwood si fosse disgregato quando avevo spianato la pistola, e la macchina che era precipitata lungo la scarpata quando avevo aperto il fuoco contro di essa.

Con il fucile in mano, mi allontanai a passi felpati lungo la stradina. Se mi stavano cercando, non mi avrebbero trovato dove speravano.

Attraversai un paesaggio silenzioso, pervaso di un forte odore autunnale. Dagli alberi cadeva una continua pioggia di foglie color ruggine, che andavano delicatamente a impigliarsi tra i rami del sottobosco, creando una specie di labirinto vegetale. Camminavo in perfetto silenzio; l’unico rumore che facevo era quando calpestavo inavvertitamente qualche ramo secco. Sotto i piedi avevo un tappeto di foglie e muschio che mi aiutava ad attutire il rumore.

Raggiunsi il limitare della macchia, mi incamminai verso la sommità della collina. Quando fui arrivato, mi acquattai dietro un cespuglio. Uno splendido nascondiglio, decorato di foglie rosso vivo. Ai miei piedi, la collina degradava verso un torrente. La macchia si estendeva con una curva in direzione della strada; più in basso, i fianchi del colle si aprivano in una vasta prateria cosparsa di erba essiccata, anch’essa costellata di arbusti dalle foglie rosse.

Poi, ecco l’uomo. Avanzando lungo la riva del torrente, aveva cominciato a salire i fianchi erbosi del colle. Si dirigeva dritto verso di me, come se sapesse che mi trovavo lì nascosto. Era un tipo comune, che camminava con la schiena leggermente curva in avanti, con vecchio feltro calato fino alle orecchie e un malandato abito scuro.

Veniva sicuro verso di me, senza alzare lo sguardo. Come facendo finta di non sapere. Aveva un’andatura strascicata, piuttosto lenta, mentre arrancava su per la collina, sempre con gli occhi fissi al terreno.

Alzai il fucile, lo appoggiai bene contro la spalla, feci spuntare la canna da in mezzo alle foglie rosse e presi la mira sulla sua testa.

Si fermò, come se sapesse di trovarsi sotto tiro. Stavolta sollevò la testa, e cominciò a farla ruotare sul collo. Si irrigidì, e quindi cambiò direzione, camminando lungo i fianchi della collina verso una piccola forra coperta di erba alta.

Nel riabbassare il fucile, avvertii la prima zaffata di aria mefitica.

Annusai meglio per esserne sicuro. Nessun dubbio: nelle vicinanze ci doveva essere una puzzola spaventata. Ghignai, pensando “Gli sta bene” al mio inseguitore. Il quale adesso correva in discesa tra le erbacce e gli arbusti, in direzione della forra. Poi, di botto, scomparve.

Mi stropicciai gli occhi, guardai di nuovo, ma non c’era più. Forse era inciampato, mi dissi. Ma ebbi quella stessa sensazione che avevo già provato in un’altra occasione, nel sotterraneo di casa Belmont, quando Atwood in un attimo era sparito dalla sedia, ed erano comparse le sfere saltellanti sul pavimento. Non avevo distolto lo sguardo nemmeno per un istante, e tuttavia mi ero perso lo spettacolo: un attimo prima Atwood stava seduto là, un attimo dopo al suo posto c’erano le palle da bowling. La cosa adesso si era ripetuta in quello splendido pomeriggio autunnale. Prima c’era un uomo che camminava nell’erba alta, e poi, di colpo, non c’era più.

Mi sollevai cautamente, imbracciando il fucile, pronto a far fuoco, scrutando giù lungo le pendici del coDe.

Tutto sembrava normale. Notai solo che, proprio nella zona in cui l’uomo era scomparso, l’erba si muoveva. Tutt’intorno, la calma più assoluta.

Di nuovo il terribile odore della puzzola raggiunse le mie narici, salendo dal pendio. Inoltre succedeva qualcosa di ancora più strano: si vedeva l’erba agitarsi, come se qualcosa vi strisciasse attraverso, ma senza provocare rumore.

Cominciai a scendere, sempre con l’arma puntata.

All’improvviso sentii che qualcosa tentava disperatamente di saltar fuori della mia tasca, come un topo entrato per sbaglio, che ora volesse riacquistare la libertà. Con una mossa fulminea cercai di bloccare l’apertura della tasca, ma non feci in tempo. Ne saltò fuori una piccola sfera nera, che, dopo essermi sgusciata tra le dita, filò a pazza velocità verso il punto dove l’erba si muoveva.

La osservai mentre sfrecciava via e mi chiesi cosa fosse. Ebbi un’improvvisa rivelazione: era il denaro che avevo in tasca, una parte dei soldi che avevo ricevuto a casa Belmont. Aveva ripreso la sua forma originaria e correva verso il luogo dov’era scomparso l’altro essere.

Gridai, e cominciai a correre anch’io laggiù, dimenticando ogni precauzione, perché dovevo scoprire cosa stava succedendo.

Le emanazioni della puzzola stavano quasi per farmi perdere i sensi, e con tutta la buona volontà, non potei fare a meno di girare più al largo, quando con la coda dell’occhio vidi che cosa accadeva.

Rimasi immobile a guardare attonito.

Sotto i miei occhi, un gruppo di sfere saltava freneticamente nell’erba, rotolando e guizzando in aria, in uno sfrenato ballo selvaggio. Dall’erba arrivava il nauseabondo odore lasciato da una puzzola di passaggio, che provocava le lacrime e faceva venire i brividi.

Non potendo più resistere, girai i tacchi, quasi soffocato.

Mentre tornavo di corsa verso la macchina, mi sentivo trionfante. Avevo finalmente scoperto il tallone d’Achille nell’armamentario quasi perfetto delle palle da bowling.

34

Per loro, aveva detto il Cane, il profumo era la loro ragione di vita, il loro unico piacere. Il valore supremo. Una volta impadronitisi della Terra, l’avrebbero barattata con una partita di profumi.

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