Poi smisi di narrare, e scese il silenzio. Mentre parlavo, il sole era scomparso dietro l’orizzonte, e la foschia aveva ammantato i boschi. Si era anche levato un venticello gelido, che portava l’odore delle foglie morte.
Restando seduto, pensai a quanto ero stato imbecille. Vuotando il sacco in quel modo, mi ero tagliato le gambe da solo, perché avrei potuto convincerlo in altri infiniti modi a fare quello che desideravo da lui. Ma no, dovevo proprio prendere la strada più difficile!
Aspettavo le sue reazioni. Le avrei ascoltate, poi mi sarei alzato e me ne sarei andato. L’avrei ringraziato per il whisky e la cortesia, poi avrei riattraversato i campi e i boschi, al buio, fino alla macchina. Sarei tornato al motel per cena… anzi, in ritardo per la cena, facendo innervosire Joy. E il mondo sarebbe crollato senza opporre resistenza.
— Se è venuto a chiedere il mio aiuto — mi disse il vecchio, parlando al buio — mi dica che cosa posso fare per aiutarla.
— L… lei mi crede? — balbettai.
— Straniero — rispose — quello che penso io non conta. Di certo non sarebbe venuto a seccare me, se quello che ha raccontato non fosse vero. Inoltre, credo che alla mia età si riesca a distinguere quando un uomo sta mentendo.
Tentai di parlare senza riuscirci. Le parole mi si accavallavano in gola, mi veniva da piangere come non mi accadeva da decenni. Dentro di me sentivo crescere un sentimento di gratitudine e di speranza.
C’era un uomo che credeva alle mie parole, senza ritenermi pazzo, restituendomi tutta la dignità che temevo di essere sul punto di perdere irrimediabilmente.
— Quante puzzole potrebbe mettere insieme? — gli chiesi.
— Una dozzina, forse una ventina. Ce ne sono molte tra queste pietre. E vengono tutte le sere a trovarmi, a prendere un boccone dalle mie mani.
— Potrebbe raccoglierle in modo da poterle trasportare?
— Trasportarle? — mi chiese.
— In città — risposi.
— C’è Tom, il proprietario della fattoria dove ha parcheggiato. Lui potrebbe prestarmi il suo pick-up.
— Senza far domande?
— Oh, farà un sacco di domande! Ma troverò qualche buona scusa.
— Bene, allora — dissi. — Ora le dico cosa desidero che faccia. Il modo in cui potrà dare il suo contributo al piano.
Rapidamente gli diedi delle istruzioni.
— Ma… le mie puzzole! — esclamò, addolorato.
— Pensiamo prima agli uomini — osservai. — Ricorda cosa le ho detto?
— E se mi ferma la polizia…
— Niente paura, c’è una soluzione anche per questo. Ecco… — Tirai fuori di tasca una manciata di dollari e glieli porsi. — Con questi potrà pagare qualsiasi multa, e ne avanza.
Guardando il denaro, il vecchio osservò: — È la roba che le hanno dato a casa Belmont!
— Una parte — precisai. — Anche lei, non lo porti tutto addosso. Potrebbe scomparire dalle tasche, trasformandosi in ciò che era prima. Meglio lasciarne un po’ qui.
Facendo scendere Luna da in grembo, mise il denaro in tasca. Poi si alzò e mi passò la bottiglia.
— Quando si comincia? — chiese.
— Posso telefonare a questo Tom?
— Certo. Ma facciamo così. Fra poco andrò ad avvisarlo che aspetto una telefonata. Quando lei chiamerà, Tom mi verrà ad avvisare con il camioncino, e allora gli chiederò il favore di prestarmelo. Senza dirgli tutta la verità, naturalmente, benché di Tom ci si possa fidare.
— La ringrazio di cuore.
— Ancora un goccio — disse, porgendomi la bottiglia. — Poi me la ridia, che ne ho bisogno anch’io.
Bevvi, gli allungai il whisky, e lui tracannò. Quindi disse: — Mi metterò subito al lavoro. Tra un paio d’ore avrò radunato un bel po’ di puzzole.
— Io intanto vado a controllare che sia tutto a posto — gli dissi. — Poi chiamerò Tom… come fa di cognome?
— Anderson — disse il vecchio. — Nel frattempo, io gli avrò già parlato.
— Grazie ancora, vecchio mio. E a presto.
— Un altro goccetto? — offrì.
Scossi la testa. — Devo lavorare — dissi.
Me ne andai, attraversando la campagna a passi pesanti, nella incerta luce del crepuscolo.
La fattoria presso cui avevo fermato la macchina aveva qualche finestra accesa, ma sull’aia non c’era nessuno.
Mentre mi avvicinavo alla macchina, udii ringhiare nel buio. Quel suono minaccioso mi fece drizzare i capelli in testa. Mi colpì come una martellata, lasciandomi paralizzato e inebetito, per tutta la paura e l’odio che trasudava, insieme a un rumore di zanne.
Disperatamente cercai la maniglia dello sportello, mentre il ringhio si avvicinava e cresceva di intensità. Riuscii ad aprire e piombai sul sedile, sbattendo la portiera. All’esterno, il ringhio continuava.
Avviai il motore, accesi i fari, e a quella luce vidi cos’era. Era il cane della fattoria che mi aveva accolto amichevolmente al mio arrivo, e che mi si era appiccicato alle calcagna finché non lo avevo mandato via. Ma il suo aspetto attuale non era affatto amichevole. Aveva il pelo irto, e ringhiando mostrava la candida fila dei denti aguzzi. Gli occhi erano verdi, fosforescenti alla luce dei fari. Si tirò da parte, con il dorso arcuato e la coda fra le gambe.
Terrorizzato, pigiai al massimo sull’acceleratore. Le ruote girarono un attimo a vuoto, poi la macchina partì con un guizzo, passando accanto al cane.
Mi era sembrato tanto docile quel cane, a prima vista. Era stata una faticaccia convincerlo a rimanere a casa sua.
Perché era cambiato così in quelle poche ore? O, piuttosto, com’ero cambiato io?
Non sapevo trovare una risposta, mentre un rivolo di sudore gelato mi scendeva lungo la schiena. Pensai che, forse, era colpa del buio. Di giorno era un buontempone, ma con le tenebre diventava il terribile cane da guardia delle proprietà del contadino.
Questa spiegazione non mi convinceva. Ci doveva essere sotto ben altro.
Sull’orologio del cruscotto vidi che erano le sei e un quarto. Dovevo ancora fare ritorno al motel per telefonare a Gavin e a Dow per sapere le novità del giorno. Non che mi aspettassi novità, anzi proprio per sincerarmi che non ce ne fossero. Poi avrei chiamato Tom Anderson, e dopo mi sarei messo definitivamente in moto, per il bene o per il male.
Una lepre mi attraversò la strada, scomparendo nell’erba dall’altro lato. Sullo sfondo vivido della luce che ancora illuminava il cielo ad occidente si stagliava uno stormo di uccelli, come una pennellata di nerofumo.
Raggiunta la statale, mi immisi su una strada secondaria, quindi mi avviai verso la città.
Non sentivo più il sudore freddo di poco prima, cominciavo a dimenticarmi del cane. Mi riprese un senso di fiducia, pensando che c’era qualcuno che credeva in me, anche se era un vecchio strano, una specie di eremita sepolto nei boschi. Ma forse lui era l’unico al mondo in grado di darmi un aiuto effettivo, molto di più del senatore o del direttore o di chiunque altro. Sempre che il piano funzionasse.
All’improvviso venne fuori un prurito all’orecchio. Effetto del nervosismo, ipotizzai.
Tentai di staccare una mano dal volante per grattarmi l’orecchio, ma non ci riuscii. Era incollata al volante! Pensai a uno scherzo dell’immaginazione: avevo intenzione di sollevare la mano, ma non potevo farlo a causa di qualche anomalia psicologica o fisica. Il che, a ben pensarci, era in se stesso qualcosa di preoccupante.
Provai ancora. Tesi tutti i muscoli del braccio, ma la mano rimase lì dov’era, mentre il panico si impossessava di me.
Tentai allora di muovere l’altra mano, inutilmente. In quel momento mi accorsi che dal volante erano cresciute delle appendici che mi avevano bloccato i polsi come manette.
Premetti sul freno con tutta la mia forza, senza alcun risultato. La macchina sembrava non avere più i freni.
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