Rimasi seduto in quella posizione a lungo. Un cumulo di miserie pesante come il piombo. Il dolore si calmò.
Dovevo trovarmi sul fianco di un colle, pensai. Dovevo raggiungere la strada che si trovava più in alto: là avrei avuto qualche probabilità che qualcuno mi vedesse. Non avevo idea di quanto fosse distante la strada. Non ricordavo in che punto la macchina mi avesse scaricato scomparendo, né quanto a lungo fossi rotolato sul terreno dopo la caduta.
Ma dovevo raggiungere la strada a qualunque costo, anche trascinandomi carponi. E non riuscivo a scorgere la strada né nient’altro in quel buio completo, senza stelle, senza la minima luce.
Camminando sulle ginocchia, cominciai a risalire attraverso l’erba. Procedevo con estrema lentezza, con le pochissime forze che ancora mi rimanevano. Pur avvertendo meno il dolore, mi sentivo esausto.
Avanzavo adagio, con fatica. Dovetti girare intorno a un albero che trovai sulla mia strada. Mi andai a impigliare in un cespuglio di rovi, e dovetti fare un lungo giro per evitarlo. Dovetti scavalcare un tronco caduto, arrampicandomi da un lato e calandomi dall’altro.
Per sapere che ora fosse, mi tastai il polso, cercando l’orologio. Per fortuna l’avevo ancora, ma tastandomi il polso mi produssi dei tagli sul cristallo rotto. Lo portai all’orecchio e sentii che era fermo. Del resto, a che sarebbe servito in quel buio pesto?
Finalmente, da lontano, mi arrivò un mormorio diverso dal sibilo del vento. Tesi le orecchie: era inequivocabilmente il rumore prodotto da un’automobile.
Fu come un pungolo. Continuai a salire, con movimenti più scoordinati a causa dell’emozione, senza peraltro aumentare granché la mia velocità.
Il rumore aumentava. Infine, alla mia sinistra vidi il bagliore dei fari di una macchina in avvicinamento. Le luci si indebolirono e svanirono, poi ricomparvero più vicine.
Cominciai a urlare, senza articolare parole, solo grida per attirare l’attenzione, ma la macchina superò la curva e continuò per la sua strada, senza notarmi. Per un istante, la sua massa e i suoi fasci luminosi avevano riempito il mio orizzonte, poi si erano dileguati, lasciandomi solo, a cercare di arrampicarmi ancora più su.
Non pensavo ad altro che a raggiungere il livello stradale. Speravo che sarebbe passato qualcun altro, o che quella stessa macchina sarebbe tornata indietro.
Dopo un tempo che mi parve un secolo, arrivai alla strada.
Mi issai sulla banchina, mi riposai e pian piano riuscii a mettermi in piedi. Sentivo ancora male, ma non tremendo come prima. Riuscivo a reggermi in piedi, non troppo bene, ma era già tanto.
Ne erano successe di cose, da quando avevo trovato quella trappola davanti all’uscio di casa. Eppure, in realtà, era trascorso poco tempo, probabilmente non più di una quarantina d’ore.
In quelle quaranta ore mi ero impegnato in un’assurda partita a scacchi contro quella cosa che si era trasformata in trappola. Una partita che avrebbe dovuto concludersi adesso, con la mia morte.
Ma non ero morto, contro le loro previsioni. Avevo una o due costole in pezzi, e il diaframma aveva preso una bella botta contro l’albero, ma eccomi in piedi, non ancora sconfitto.
Prima o poi, se la sorte mi veniva incontro, sarebbe passata un’altra macchina.
Un dubbio atroce mi balenò alla mente: e se la prossima auto di passaggio si fosse rivelata un’altra metamorfosi di quelle sfere? Poi però mi sembrò improbabile. Si trasformavano quando c’era uno scopo, ma non c’era motivo di ritenere che proprio allora avessero bisogno di una nuova vettura.
Infatti, non facevano uso di automobili per spostarsi. Si servivano dei loro cunicoli per andare da un posto all’altro, se non addirittura da un punto all’altro della Terra. Non era azzardato pensare che il nostro pianeta fosse attraversato dalla fittissima rete di cunicoli che costituiva il sistema di trasporto degli extraterrestri.
Provai a muovere un passo, e rimasi in piedi. Anziché star fermo ad aspettare l’arrivo di qualcuno, forse era più saggio incamminarsi lungo la strada, in direzione della statale. Laggiù qualcuno mi avrebbe aiutato di sicuro, mentre qui avrebbe potuto trascorrere l’intera notte senza che si vedesse anima viva.
Partii zoppicando, e non mi sentivo poi così male, tranne per le fitte lancinanti che sentivo al torace a ogni passo. Mentre camminavo, mi sembrò che il cielo si stesse rischiarando.
A forza di sostare per riprendere le forze, mi capitò di guardare indietro e vidi la causa di quei bagliori. Nel bosco, alle mie spalle, si era sviluppato un incendio. Vedevo le lingue di fuoco guizzare in aria, e nel bagliore distinsi delle travi che reggevano un tetto.
Era casa Belmont. Casa Belmont era in fiamme!
Rimasi immobile a guardare, pregando il cielo che qualcuno di “quelli” arrostisse nel fuoco. Ma sapevo che non era possibile, perché riuscivano a salvarsi ricorrendo ai loro meandri sotterranei. Me li immaginavo in fuga, alla ricerca dei loro cunicoli col fuoco alle spalle. Finti uomini e i finti mobili che si trasformavano rapidamente in sfere e rotolavano in cerca dei buchi.
Tutto questo faceva piacere, ma aveva comunque un valore relativo, perché casa Belmont era solo uno dei loro capisaldi sulla Terra. Ce ne dovevano essere molti altri sparsi per il mondo, collegati tra loro per mezzo della rete di tunnel, tutti convergenti verso il covo centrale degli alieni. Grazie ai misteri della loro scienza, le sfere avrebbero potuto accorrere a quella sede in un battibaleno.
Il fascio di luce di una macchina squarciò le tenebre illuminandomi. Agitai le braccia e gridai, mentre saltavo da un lato per non farmi investire. Poi le luci posteriori rosse si intensificarono e si udì uno stridore di freni. La macchina fece rapida marcia indietro fino a me.
La testa di un uomo si sporse dal finestrino: — Cristo, pensavamo che fosse morto!
Joy scese di corsa dalla macchina e mi venne incontro singhiozzando.
— Le parli — continuò a dire Larry Higgins. — Per amor del cielo, le dica qualcosa prima che impazzisca! Ha dato fuoco lei a quella casa!
Joy mi afferrò con forza per le braccia, come per rendersi conto che fossi veramente io, in carne ed ossa.
— Una di quelle cose mi ha telefonato — disse, quasi senza riuscire a respirare — e mi ha detto che eri morto… Hanno detto che chi prova a ingannarli non la passa liscia. E che tu avevi osato farlo, e loro ti avevano liquidato… E hanno aggiunto di pensare agli affari miei, per il futuro. Poi…
— Ma di che sta parlando? — mi chiese Higgins, sconvolto. — Giuro su Dio che è pazza! Mi ha telefonato e mi ha chiesto del vecchio Eolo, era così agitata che…
— Sei ferito? — mi domandò Joy.
— Un po’ malconcio. Ma ora abbiamo poco tempo.
— La signorina mi ha chiesto di portarla da Eolo — proseguì Higgins — e gli ha detto che lei era morto, ma di andare avanti a fare tutto quello che lei gli aveva ordinato. Così, il vecchio ha caricato un branco di puzzole…
— Che cos’ha fatto? — gridai. Non ci potevo credere.
— Proprio così. Ha caricato una quantità di puzzole su un camioncino e le ha portate in città.
— Ho fatto male? — mi chiese Joy. — Mi sono ricordata che mi avevi parlato di un vecchio che era amico delle puzzole e di un taxista che si chiamava Larry Higgins, e allora io…
— Oh no, cara! — risposi. — Hai fatto benissimo. Non avresti potuto fare meglio.
Le passai un braccio intorno alla vita e la strinsi forte a me. Mi fece un po’ male alle costole, ma non me ne importò molto.
— Accenda la radio — dissi a Higgins.
— Scusi se insisto, signor Graves — ribatté l’autista — ma è meglio squagliarcela da questi paraggi. La signorina ha dato fuoco alla casa, e se la polizia…
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