— Be’, ovviamente — rispose. — Lei ci è… come dite voi?… ci è dentro fin dall’inizio.
— Sai che onore…
— Senta, Graves. È bene che non si faccia illusioni, come temo ne abbia. Al punto in cui siamo arrivati, non può fare niente per fermarci. Né lei né nessun altro. Avrebbe magari potuto farlo tempo fa, ma ora è troppo tardi. Mi creda sinceramente, Graves.
— Se è troppo tardi, perché perdete tempo con me?
— Lei ci serve. Ci sono certe mansioni che lei saprebbe svolgere assai bene per noi. Quando l’umanità verrà a sapere quello che sta succedendo, potrebbe prendersela a male, non è vero, signor Graves?
— Non può neppure immaginare fino a che punto, sorella — risposi.
— Be’, non vogliamo noie. O il meno possibile. Siamo sicuri di agire in base a un programma perfettamente morale e legale. Abbiamo rispettato tutte le vostre prescrizioni. Non abbiamo violato nessuna delle vostre leggi e non intendiamo imporci con la forza. E penso che anche gli umani si troverebbero d’accordo, o la cosa potrebbe diventare molto, molto dolorosa. Vogliamo portare a buon fine questo progetto per poterci dedicare ad altro, e vogliamo farlo senza eccessivi grattacapi. E lei ci può aiutare.
— E perché dovrei farlo?
— Signor Graves — disse — la sua attività andrà a beneficio non solo nostro, ma dell’intero genere umano. Ogni cosa che lei facesse per rendere morbido il passaggio, sarebbe un vantaggio anche per la sua gente. Del resto, qualunque cosa facessero gli uomini, la fine rimarrebbe sempre la stessa. E sarebbe insensato arrivare a quella stessa fine attraverso infinite sofferenze. Ora, tenendo presente che lei è un esperto di comunicazione di massa…
— Non tanto quanto suppone — osservai.
— Si intende dei metodi e della tecnica del linguaggio. Sa scrivere in modo convincente…
— Ci sono altri che scrivono meglio di me.
— Ma lei è l’unico disponibile, signor Graves — disse, in un tono che non mi piacque.
— Insomma, dovrei fare star buona la gente. Cantargli la ninna-nanna.
— Esatto. Inoltre dovrebbe suggerirci come comportarci nelle varie situazioni. Le chiediamo, per così dire, una consulenza.
— Ormai sono cose che avete imparato da soli.
— Forse ritiene che abbiamo assorbito completamente la mentalità umana. Che siamo in grado di pensare e agire come gli umani. La cosa non è così semplice. Certo, ci intendiamo di quelli che chiamate affari, e sarà d’accordo che siamo diventati discretamente esperti. Ce la caviamo bene anche con le leggi. Ma ci sono aree che non abbiamo avuto il tempo di approfondire. Conosciamo la natura umana da un solo punto di vista: quello dei suoi comportamenti in campo economico. Il resto rimane in gran parte un mistero. Non abbiamo idea di come reagiranno gli umani quando scopriranno la verità.
— Paura, eh? — chiesi.
— No, affatto. Siamo pronti a dimostrarci anche spietati, se necessario. Ma richiederebbe tempo, e non ne abbiamo.
— Se anche fossi disposto a scrivere quella roba per voi, come fareste a pubblicarla? Come arriverebbero le mie idee al resto degli uomini?
— Lei pensi a scrivere — disse l’iceberg biondo. — Al resto penseremo noi.
Avevo paura. Anche un briciolo di rabbia, ma soprattutto paura. Fino a quel momento non avevo colto fino in fondo la fredda implacabilità di questi alieni. Non portavano odio né rancore. Di fatto, non rientravano nella normale categoria di “nemici”. Erano una forza maligna che nessuna supplica avrebbe potuto piegare. Perché, semplicemente, per loro non esisteva il problema: la Terra era solo un lotto di terreno, e il genere umano una nullità.
— Mi sta chiedendo di tradire la mia razza — dissi.
Mi resi conto immediatamente che il termine “traditore” non aveva significato per loro. Potevano incasellarlo nel contesto giusto, ma senza avvertirne il peso. Perché questi esseri non avevano gli stessi princìpi morali dell’umanità. Forse avevano una loro moralità, ma lontanissima dalla nostra, e per noi incomprensibile.
— La metta in termini pratici — mi disse. — Le offriamo una buona occasione. O resta dalla parte degli uomini, e ne condividerà la sorte, o passa con noi, a condizioni molto più vantaggiose. Se rifiuta, noi non perderemo molto. Se accetta, sarà di grande aiuto tanto a se stesso quanto al resto della sua razza, anche se a loro forse un po’ meno. Si metta con noi, ne approfitti, e sarà tanto di guadagnato per tutti.
— Chi mi garantisce che manterrete i patti?
— Gli affari sono affari — ribatté seccamente.
— Pagherete bene, immagino.
— Molto bene — rispose.
Improvvisamente, vidi rotolare sul pavimento una palla da bowling, venuta fuori da chissà dove. Si fermò a circa un metro da me.
La ragazza si alzò e girò intorno al tavolo, puntando gli occhi sulla sfera. Questa cominciò a mostrare diverse striature molto sottili sulla superficie e a suddividersi in tanti strati in corrispondenza delle striature. Dall’originario colore nero passò al verde, poi continuò a suddividersi, finché al posto della sfera comparve un bel mucchio di dollari.
Non riuscii a spiccicar parola.
La ragazza si chinò, raccolse una banconota e me la porse.
Mi soffermai a fissare la banconota, mentre lei restava in attesa.
— Ebbene, signor Graves? — mi chiese.
— Sembra denaro — le dissi.
— È denaro. Dove pensa che prendiamo tutto quello che ci occorre?
— E poi dite di agire legalmente — osservai.
— Non capisco — disse.
— Avete violato una regola. La più importante di tutte: il denaro è il valore che si dà a un lavoro. Per aver aperto una strada, o dipinto un quadro, o per le ore di attività svolta.
— Quello è denaro — affermò. — Ed è tutto ciò che ci occorre.
Si chinò e raccolse tutto il mucchio. Quindi lo posò sulla scrivania e cominciò a dividerlo in mazzette.
Inutile provare a farglielo capire. Non che fosse cinica o disonesta, era che proprio non capiva. Si trattava di un punto cieco, per un alieno: il denaro era considerato un semplice prodotto, non un simbolo.
Ne fece delle mazzette ben ordinate, si chinò a raccogliere alcune banconote che erano scivolate e le aggiunse alle altre. Il bigliettone che tenevo in mano era da 20 dollari, di cui sembravano essersene prodotti parecchi, insieme a una serie di 10 e a qualche 50.
Prese tutte le mazzette e me le porse: — Sono suoi.
— Non ho ancora deciso…
— Sono suoi in ogni caso. E pensi bene a quello che le ho detto.
— Ci penserò — le dissi.
Mi alzai e intascai il denaro.
— Ma arriverà il giorno in cui questa roba non servirà più a niente — dissi, dando dei colpetti sulle tasche piene di dollari — perché non potremo comprare più nulla.
— Allora ci sarà altro, per lei. Tutto ciò che vorrà.
Rimasi fermo a pensare e, buffamente, mi venne in mente che adesso avevo il denaro per pagare il taxi. La mia mente non riusciva a pensare ad altro. L’assurdità di quell’incontro aveva cancellato tutto, tranne un senso di vuoto totale.
Dovevo uscire di lì. Andarmene da quel posto prima che si abbattesse su di me un’ondata di repulsione. Dovevo fuggire finché mi restava un briciolo di dignità, per rifugiarmi da qualche parte a pensare. E finché non fossi arrivato a una conclusione, dovevo fingere di stare dalla loro parte.
— La ringrazio — dissi. — Ma… non ricordo il suo nome.
— Non ho un nome — rispose. — A che scopo? Solo quelli come Atwood ne hanno bisogno.
— Allora, grazie. E ci mediterò su.
Lei si voltò e uscì, precedendomi verso l’ingresso. La cameriera non c’era. Attraverso l’entrata, scorsi il soggiorno pulito e in ordine, bene ammobiliato. Mi chiesi quanti di quei mobili fossero veri e quanti fossero sfere trasformate.
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