— Lo dobbiamo, invece.
— Abbiamo fretta! Jorslem è affollata; non voglio perdere tempo in uno stupido villaggio.
— Hanno bisogno di noi, Olmayne.
— Ma cosa siamo, Chirurghi?
— Siamo Pellegrini — risposi quietamente. — I benefici che otteniamo dalla nostra posizione comportano certi doveri. Come abbiamo diritto all’ospitalità di tutti coloro che incontriamo, così dobbiamo anche mettere la nostra anima a piena disposizione degli umili. Venite.
— Mi rifiuto!
— Come ve la caverete a Jorslem, quando dovrete raccontare tutto di voi, Olmayne?
— È un morbo orribile. Se restassimo contagiati?
— È questo che vi preoccupa? Abbiate fede nella Volontà! Come potete aspirare al rinnovamento se la vostra anima è così priva di grazia?
— Vi possano marcire le budella, Tomis — mi disse a bassa voce. — Da quando in qua siete tanto pio? Lo fate apposta per vendicarvi di ciò che vi ho detto sul Ponte di Terra. In un momento di stanchezza vi ho insultato, e adesso voi, pur di prendervi la rivincita, volete esporci al pericolo di una malattia contagiosa. Non fatelo, Tomis!
Ignorai le sue accuse. — I bambini cominciano ad agitarsi, Olmayne. Volete aspettarmi qui, o preferite scendere all’ostello del prossimo villaggio?
— Non lasciatemi sola in questo deserto!
— Debbo andare da chi soffre — le dissi.
Alla fine si decise ad accompagnarmi: non perché, credo, sentisse l’improvviso desiderio di rendersi utile, ma piuttosto per il timore che quel rifiuto egoista potesse giocare a suo sfavore nella città santa di Jorslem. In breve giungemmo al villaggio, che era piccolo e cadente, perché l’Agupt giace nel sonno di un caldo terribile, e i millenni lo sfiorano appena. Enorme è il contrasto con le affollate città del sud Afrik, città che prosperano sulla produzione di raffinati oggetti che esce dalle grandi Manifatture.
Madidi di sudore, seguimmo i bambini nelle case del pianto.
Il mal cristallino è un odioso regalo giunto dalle stelle. Non sono molte le malattie degli stranieri che affliggono i terrestri; ma dai mondi della Lancia ci è arrivata questa calamità, portata dai turisti e rapidamente diffusa tra noi. Se ciò fosse accaduto nei gloriosi giorni del Secondo Ciclo, l’avremmo sconfitto in un attimo; ma adesso le nostre conoscenze si sono impoverite, e non passa anno senza che il morbo dia segni di vita. Quando entrammo nella prima capanna di fango in cui erano assembrate le vittime, il volto di Olmayne era una smorfia d’orrore.
Non esiste speranza per chi contrae questa malattia. Si deve solo sperare che chi è sano non ne resti vittima; e, fortunatamente, non è un morbo molto contagioso. La sua azione è insidiosa, si trasmette in un modo che ci è ignoto; spesso non passa dal marito alla moglie ma invece balza nella parte opposta della città, addirittura in un altro territorio, in certe occasioni. Il primo sintomo è dato dalla squamosità della pelle: pruriti, scaglie sulle vesti, infiammazione. Poi subentra la debolezza ossea, mentre il calcio si dissolve. Si diventa molli, gommosi; ma questa è ancora una fase iniziale. Presto i tessuti esterni s’induriscono. Spesse membrane opache si formano sulla superficie degli occhi, le narici si chiudono, la pelle si fa ruvida, quasi petrosa. In questa fase sono comuni le profezie. La vittima acquista i poteri dei Sonnambuli, pronuncia oracoli. L’anima intraprende dei vagabondaggi, separandosi dal corpo per ore intere, anche se i processi vitali continuano a svolgersi. Più tardi, entro venti giorni dall’inizio della malattia, si arriva alla cristallizzazione. Mentre la struttura scheletrica si dissolve, la pelle va in pezzi, formando bellissimi cristalli dai contorni rigidamente geometrici. A quest’epoca la vittima è stupenda: ha tutto l’aspetto di un uomo scolpito in pietre preziose. I cristalli splendono di ricche luci interne, viola e verdi e rosse; le loro superfici sfaccettate cambiano disposizione di ora in ora; la minima luce nella stanza trae dal poveretto magnifici riflessi colorati, che abbagliano e deliziano l’occhio. Nel frattempo la struttura interna del corpo si modifica, quasi si stesse formando una strana crisalide. Miracolosamente, nessuna trasformazione è capace di arrestare la vita, anche se nella fase cristallina la vittima è ormai incapace di comunicare con gli altri, e forse nemmeno si accorge dei cambiamenti che si svolgono in lei. Alla fine la metamorfosi raggiunge gli organi vitali, e il processo termina. Il morbo alieno è incapace di modificare questi organi senza uccidere il corpo che lo ospita. La crisi è veloce: una breve convulsione, un’ultima scarica di energia lungo il sistema nervoso dell’uomo cristallizzato, e poi c’è un rapido arcuarsi del corpo, seguito da un suono morbido, come di vetro che si spezzi in frammenti, ed è tutto finito. Sul pianeta da cui proviene, la cristallizzazione non è una malattia ma una vera e propria metamorfosi, il risultato di migliaia di anni d’evoluzione verso una relazione di simbiosi. Sfortunatamente, nei terrestri questa preparazione evoluzionistica non c’è mai stata, ed è logico e fatale che l’agente della metamorfosi provochi la morte del malato.
Dato che il processo è irreversibile, io e Olmayne non potevamo fare nulla di veramente utile, se non offrire conforto a quella gente ignorante e spaventata. Mi accorsi subito che il morbo si era impossessato da tempo del villaggio. C’erano persone a ogni stadio della malattia, dalle prime squamosità alla cristallizzazione definitiva. Erano divisi nella capanna a seconda dell’intensità del male. Sulla sinistra avevo un triste gruppo di vittime recenti, ben coscienti di sé, che si grattavano morbosamente le braccia contemplando l’orrore che li attendeva. Lungo la parete posteriore erano allineati cinque pagliericci su cui giacevano indigeni dalla pelle indurita, nella fase profetica. Sulla destra potevo scorgere i vari gradi di cristallizzazione, e di fronte avevo la gemma del gruppo: un uomo che senza dubbio era giunto alle ultime ore di vita. Il suo corpo, incrostato da falsi smeraldi e rubini e opali, splendeva di una bellezza dolorosa; si muoveva appena; entro quel guscio di colori stupendi egli era perso in chissà quale sogno d’estasi, e forse trovava alla fine dei suoi giorni più passione, più gioia, di quanta ne avesse conosciuta in tutti gli anni della sua dura esistenza di contadino.
Olmayne si trasse indietro dalla porta.
— È orribile — mormorò. — Non voglio entrare!
— Lo dobbiamo. Ricordate i nostri obblighi.
— Non ho mai desiderato fare la Pellegrina!
— Però volevate ottenere il perdono dei vostri peccati — le ricordai. — Dovete guadagnarvelo.
— Prenderemo la malattia!
— La Volontà può raggiungerci ovunque con questa infezione, Olmayne. Lo sapete che il morbo colpisce a caso. In questa capanna non corriamo più pericoli di quanti ne correvamo a Perris.
— Perché, allora, questo villaggio è tanto colpito?
— Il villaggio conosce ora lo sfavore della Volontà.
— Con che sicurezza seguite le strade del misticismo, Tomis — disse lei, acidamente. — Vi avevo mal giudicato. Vi credevo un uomo intelligente. Questo vostro fatalismo è spaventoso.
— Ho visto la distruzione del mio mondo — le dissi. — Ho contemplato la rovina del Principe di Roum. Le grandi tragedie favoriscono atteggiamenti come il mio. Entriamo, Olmayne.
Entrammo, e Olmayne era ancora riluttante. Adesso anch’io ero assalito dalla paura, ma la ricacciai. Nella discussione con l’adorabile Pellegrina che era mia compagna di viaggio ero stato quasi presuntuoso nella mia ostentazione di fede, ma ora non potevo negare l’improvviso guizzo di terrore.
Mi costrinsi alla calma.
Ci sono redenzioni e redenzioni, mi dissi. Se questa malattia deve essere la fonte della mia, m’inchino alla Volontà.
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