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Robert Silverberg: Ali della notte

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Robert Silverberg Ali della notte

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In una Terra del lontano futuro una spaventosa catastrofe ecologica ha provocato lo sprofondamento delle Americhe e la decadenza della potenza terrestre nello spazio. La società del Terzo Ciclo si è strutturata in corporazioni feudali ed attende l’arrivo degli invasori, gli alieni che hanno salvato l’umanità dall’estinzione e che verranno a reclamare il possesso del pianeta. Quando l’invasione arriva le misere forze della Terra vengono sconfitte, e gli invasori occupano con facilità quello che considerano un loro dominio. L’affascinante vicenda si svolge in tre città, Roum (Roma), Perris (Parigi) e Jorslem (Gerusalemme), seguendo le avventure e gli incontri di Tomis, una Vedetta il cui lavoro, proiettare la mente negli spazi per avvertire dell’arrivo degli invasori, diventerà senza senso dopo l’invasione. La rottura dell’equilibrio della società feudale porterà gli uomini a stabilire nuovi rapporti umani e ad incrementare i loro poteri mentali, sino ad arrivare a dominare gli invasori, che non verranno combattuti con le armi ma con l’amore e la fratellanza, contribuendo a formare una società di impensabile ricchezza. Un romanzo leggibile su più livelli e pieno di idee, un premio Hugo più che meritato.

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Robert Silverberg

Ali della notte

Ad Harlan, per ricordargli le finestre spalancate, le correnti del fiume Delaware, le monete con due teste e altre fregature.

PARTE PRIMA

Ali della notte

1

Roum è una città costruita su sette colli. Si dice che sia stata capitale dell’umanità in uno dei primissimi Cicli. Non sapevo niente di tutto ciò, perché io appartenevo alla Corporazione delle Vedette, non a quella dei Ricordatori; ma quando la città mi si parò davanti la prima volta, dal lato sud, al crepuscolo, capii subito che in tempi antichi doveva aver avuto un’importanza immensa. Anche adesso era una possente città, di parecchie migliaia d’anime.

Le sue torri angolose si stagliavano nettamente contro il cielo crepuscolare. Le luci scintillavano, invitanti. Alla mia sinistra, il cielo era incandescente, per l’ultimo sprazzo di sole. Nastri di vapore color porpora, azzurri e violetti, fluttuavano, intrecciandosi gli uni sugli altri nella danza crepuscolare che precede l’oscurità. Alla mia destra, le tenebre erano già calate.

Cercai con lo sguardo i sette colli: non riuscii a vederli, ma compresi ugualmente che quella era la Roum maestosa a cui conducono tutte le strade, e provai profondo rispetto e riverenza per le opere dei nostri antenati.

Sostammo sul ciglio di quella via lunga e diritta, e alzammo nuovamente gli occhi alla città. — È bella — dissi. — Troveremo un impiego, là.

Accanto a me, Avluela batté le ali di trina. — E cibo? — domandò con la sua voce flautata. — E ricovero? E vino?

— Anche questi — dissi. — Tutto.

— Da quanto tempo camminiamo, Vedetta?

— Da due giorni e tre notti.

— Se avessimo potuto volare, avrei fatto molto più in fretta.

— Tu, sì — dissi io. — Ci avresti lasciati indietro e non ci avresti rivisti mai più. È questo che vuoi?

Lei mi si avvicinò, carezzò la stoffa ruvida della mia manica e mi si strofinò addosso, come una gattina in amore. Le sue ali si spiegarono come due lembi di tulle finissimo, attraverso cui potevo vedere il tramonto e le luci della sera, soffuse, distorte, come per magia. Percepii la fragranza dei suoi capelli color della notte, la cinsi col braccio e strinsi a me il suo corpo snello, da adolescente.

— Lo sai che io desidero restare con te, per sempre — disse lei. — Per sempre!

— Sì, Avluela.

— Saremo felici a Roum?

— Saremo felici — dissi, e la lasciai.

— Entriamo subito nella città?

— Meglio aspettare Gormon — dissi. — Sarà presto di ritorno dalla sua esplorazione. — Non volevo confessarle la mia stanchezza. Era soltanto una bambina di diciassette estati: che ne sapeva, lei, della stanchezza e dell’età? E io ero vecchio: non come Roum, ma vecchio la mia parte.

— Mentre aspettiamo — domandò Avluela — posso volare?

— Sì, vola.

Mi accoccolai accanto al mio carrello e riscaldai le mani contro il generatore pulsante, mentre Avluela si preparava a volare. Prima di tutto si liberò degli indumenti, perché le sue ali erano deboli e non potevano sopportare tutta quella zavorra. Agilmente, senza far rumore, si sfilò le scarpette leggere che aveva ai piedi, sgusciò fuori dalla giubba purpurea e dai soffici gambali di pelliccia. La luce morente, a ovest, avvolse la sua figuretta snella. Come tutti gli Alati, lei non aveva tessuto corporeo superfluo: i seni erano appena accennati, le natiche piatte, le cosce tanto sottili da lasciare uno spazio di vari centimetri tra l’una e l’altra, quando stava ritta a piedi uniti. Chissà se pesava più di quaranta chili? Ne dubito. Guardandola, mi sentii come al solito ingombrante e legato alla terra: un essere fatto di vile carne. Eppure, neanch’io sono corpulento.

Avluela s’inginocchiò a lato della strada, le nocche puntate a terra, il capo ripiegato tra le ginocchia, e pronunciò le parole segrete che pronunciano gli Alati. Mi voltava le spalle. A un tratto, le sue ali impalpabili presero a battere piene di vita e si spiegarono, avvolgendola come in un mantello sferzato dalla brezza. Non ero mai riuscito a capire come potessero, ali simili, sollevare una forma pur tanto leggera. Non erano ali di falco, ma di farfalla, venate e trasparenti, segnate qua e là da macchie di pigmento color ebano, turchese o scarlatto; un legamento robusto le fissava a due muscoli sotto le scapole. E poi, Avluela non aveva lo sterno carenato e i grossi fasci muscolari caratteristici di tutti i volatori. Oh, lo so che gli Alati non si servono soltanto dei muscoli, per innalzarsi, e che nel loro mistero sono adombrate discipline mistiche. Tuttavia, io, che ero delle Vedette, ero sempre un po’ scettico di fronte alle Corporazioni più fantastiche della mia.

Avluela terminò la sua invocazione. Si alzò, prese brezza e si sollevò di parecchi centimetri, restando sospesa fra cielo e terra, mentre le ali battevano frenetiche. Non era ancora buio, e quelle di Avluela erano solo ali della notte. Di giorno non avrebbe potuto volare, perché la terribile pressione del vento solare l’avrebbe gettata a terra. Ora, tra il crepuscolo e le tenebre, non era ancora il momento migliore per innalzarsi. Negli ultimi bagliori di luce, la vidi puntare verso est. Anche le sue braccia battevano, come ali. Il visetto affilato era serio e contratto per lo sforzo della concentrazione, e le labbra sottili mormoravano le parole della sua Corporazione. Il suo corpo si piegò, poi si raddrizzò di scatto: si trovò sospesa orizzontalmente, la faccia volta verso terra e le ali che battevano contro il cielo. Su, Avluela! Su!

E in breve fu su, conquistando con la sola forza di volontà quell’ultimo vestigio di luce che ancora brillava.

Seguii compiaciuto la figuretta nuda, nella crescente oscurità. La vedevo chiaramente, perché gli occhi di una Vedetta sono acuti. Era a diversi metri di altezza, ora, e le sue ali, completamente aperte, mi nascondevano parzialmente la vista delle torri di Roum. Salutò con la mano. Le gettai un bacio e offrii parole d’amore. Le Vedette non possono sposarsi, né generare, ma Avluela era come una figlia per me, e mi inorgoglivo del suo volo. Viaggiavamo insieme da un anno, ormai, da quando ci eravamo incontrati in Agupt, ed era come se ci fossimo conosciuti da sempre. Da lei attingevo nuova forza. Non so che cosa lei attingesse da me. Sicurezza? Sapienza? La continuità del passato? Speravo soltanto che mi amasse come io l’amavo.

Ora era lontana: guizzava, si impennava, si tuffava, piroettava, danzava. La sua chioma nera fluttuava nell’aria. Il suo corpo sembrava soltanto un’appendice senza importanza di quelle due immense ali, che scintillavano lucenti e pulsanti, nella notte. Si innalzò ancora, facendomi sentire anche più pesante, poi, come un razzo affusolato, guizzò via, in direzione di Roum. Intravidi i suoi piedi, la punta delle sue ali, poi più nulla.

Sospirai e infilai le mani nelle mie maniche larghe, per tenerle calde. Come mai sentivo un freddo invernale, mentre quella ragazzina poteva spaziare, gioiosamente nuda, nei cieli?

Era la dodicesima ora, su venti, e dovevo iniziare ancora una volta il mio turno di Vigilanza. Mi avvicinai al carrello, aprii le mie cassette e preparai gli strumenti. Il vetro di alcuni quadranti era ingiallito e sciupato, gli aghi degli indicatori avevano perduto fosforescenza, macchie di acqua marina deturpavano i sostegni degli apparecchi, fin da quando i pirati mi avevano assalito nell’Oceano Terrestre; ma le leve, consunte e incrinate, rispondevano docilmente al mio tocco, mentre io compivo i preliminari. Prima bisogna pregare per ottenere una mente pura e percettiva; poi si crea l’affinità con i propri strumenti; infine si compie la Vigilanza vera e propria, frugando i cieli stellati alla ricerca del nemico dell’uomo. Questa è l’unica mia abilità, la mia arte. Strinsi forte maniglie e manopole, scacciai ogni distrazione dalla mia mente e mi preparai a diventare un’estensione del mio stipo pieno di strumenti.

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