Jack Williamson - Il figlio della notte

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Il ritorno dalla Mongolia della spedizione del celebre professor Mondrick segnerà forse l’inizio di un’era nuova nella storia dell’umanità. Perchè in una certa cassa che gli esploratori portano dal deserto di Gobi sono contenute le prove di una guerra spietata e segreta, che si combatte da innumeri millenni. E il campo di battaglie è il subcosciente stesso della razza umana, dove il Maligno sembra sferrare i suoi colpi più mortali e insidiosi. Perchè il genere umano, ha scoperto Mondrick, è un ibrido: il sangue dell’Homo sapiens è, ormai, contaminato da quello dell’Homo lycanthropus, l’antichissima razza caina… Ma la scoperta di Mondrick esige le sue vittime e un orrendo pericolo minaccia di nuovo l’umanità. Le forze del male sono scatenate e gli angeli ribelli tentano ancora una volta di rialzare il capo. Metapsichica e psicocinesi sono le strane scienze a cui questo romanzo senza precedenti nella letteratura del “soprannaturale” sembra ispirarsi. E’ un romanzo che non si dimentica!

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Jack Williamson

Il figlio della notte

1.

La ragazza si avvicinò a Will Barbee mentre lui, ritto davanti al terminal di vetro e cemento di Trojan Field, il nuovo aeroporto municipale di Clarendon, osservava il cielo di piombo cercando di scorgere gli aerei in arrivo. Non c’era alcun motivo perché Will dovesse sentirsi percorrere da un brivido tale da fargli battere i denti: ma forse era stata soltanto una folata dell’umido vento di levante.

Snella ed elegante nella bianca pelliccia, la ragazza gli trasmetteva un’o­scura sensazione di gelo. Tuttavia, aveva una incredibile massa di capelli ros­si; e bianca e flessuosa com’era, il volto serio e dolce, confermò la prima impressione ricevuta da Will: che fosse qualcosa di straordinariamente pre­zioso e bello. Lo fissò, e la bocca di lei parve incurvarsi in un accenno di sorriso.

Barbee, col fiato mozzo, esaminò più attentamente quegli occhi che lo guar­davano sorridendo gravi: erano proprio verdi, verdissimi. La scrutò, cercan­do di spiegarsi quel freddo brivido di allarme istintivo, e si rese conto di provare un’attrazione altrettanto istintiva. Gli parve illogico: la vita lo aveva reso cinico in fatto di donne, e si considerava ormai immune al loro fascino.

Il tailleur di gabardine verde che la ragazza portava sotto la pelliccia, sem­plice e severo, era di certo molto costoso, e la tinta si intonava al colore degli occhi. Contro le raffiche gelide di quel grigio pomeriggio d’ottobre, la ragaz­za era difesa da una specie di cappotto di pelo candido e folto, che a Will parve di lupo artico: albino, probabilmente.

Il gatto però era davvero strano.

Dall’apertura della borsa di coccodrillo che le pendeva dal braccio, e sem­brava che intorno a esso fosse avvolto un rettile vivo, un gattino spuntava fuori con aria soddisfatta; un piccolo micio nato da poco, tutto nero, con un bel nastro di seta rossa annodato intorno al collo.

Insieme, erano una perfetta immagine di serena innocenza. Ma quel micino che sbatteva gli occhi alle luci che si rincorrevano nel crepuscolo, portava una nota discorde. La ragazza non sembrava il tipo che gioisse della compa­gnia di una bestiola così tenera. E la sua apparenza di giovane e determinata donna d’affari non sembrava proprio conciliabile con l’inclusione di un gatti­no nero, sia pur piccolo e grazioso, fra gli accessori d’abbigliamento.

Barbee si chiese dove e quando l’avesse conosciuta. Clarendon non era cer­to una grande città, e un cronista come lui, che va dappertutto, dei capelli rossi come quelli li avrebbe visti e ricordati anche se fosse stato cieco. La guardò ancora, dubbioso che quegli occhi verdi si dedicassero proprio a lui.

La ragazza continuava a fissarlo.

«Barbee?», chiese con voce morbida e piena, una voce che rivelava una vitalità così intensa da possedere quasi una sfumatura gutturale.

«Will Barbee», rispose lui. «Cronista del Clarendon Star. »

Si era illuso che un così modesto particolare potesse sembrare interessante alla ragazza.

«Il direttore stasera vuole che prenda due piccioni con una sola fava», riprese, a corto di argomenti. «Il primo piccione sarebbe il colonnello Walraven, che ha piantato Washington e la burocrazia per tornarsene a Clarendon, dove spera di essere eletto senatore. Ma avrà ben poco da dire alla stampa, prima di aver parlato con Preston Troy.»

Il gattino sbadigliò mentre le luci si accendevano, e la piccola folla di paren­ti e amici in attesa si accalcò lungo la rete metallica che divideva il pubblico dal campo. Intanto, gli intensi occhi verdi della ragazza non s’erano staccati per un attimo dalla sua faccia, e la sua voce magica domandò dolcemente:

«E il secondo piccione?».

«Quello è il più grosso. Si tratta del professor Lamarck Mondrick. Anima e corpo dell’Istituto per le Ricerche Antropologiche, vicino all’università. È atteso per quest’oggi, su un aereo noleggiato sulla costa del Pacifico, insieme coi suoi compagni di spedizione. Sono stati nel deserto di Gobi, in Mongolia. Ma lei già saprà tutto di questi esploratori.»

«No», e qualcosa nella voce di lei gli accelerò le pulsazioni del sangue nelle vene. «Che cosa hanno fatto?»

«Sono archeologi, che la guerra ha sorpreso mentre facevano degli scavi in Mongolia, scavi che naturalmente furono interrotti. Nel 1945, quando i giap­ponesi si sono arresi, la spedizione è tornata subito là, malgrado gli impacci burocratici. Sam Quain, che è il braccio destro di Mondrick, durante la guer­ra aveva fatto parte d’una importante missione militare in Cina e perciò ha potuto ottenere i permessi necessari. Sembra che abbiano trovato qualcosa di eccezionale.»

La ragazza lo ascoltava con interesse, per cui Barbee riprese: «Sono tutti di Clarendon, e tornano in patria stasera dopo due anni di lotta e di pericoli con militari, banditi, tempeste di sabbia e scorpioni nel cuore della Mongolia più misteriosa. Sembra che portino con sé qualcosa che sconvolgerà il mondo archeologico.»

«E cioè?»

«È appunto quello che il mio direttore vorrebbe che io scoprissi stasera.» Barbee la osservò con due grigi occhi pazienti e perplessi. Il gattino nero ammiccò, più arzillo che mai. Niente, nell’aspetto della ragazza, giustificava il suo sfuggevole brivido di allarme. Il suo sguardo era ancora impersonale. Temette che se ne andasse.

Inghiottendo la saliva, il giornalista si decise: «Dove ci siamo conosciuti?», domandò.

«Sono una collega, o per meglio dire una rivale», disse la ragazza, in tono più aperto, non privo di cordialità. «April Bell, del Clarendon Call. »Gli mo­strò un taccuino nero: «Mi hanno detto di guardarmi da te, Will Barbee.»

«Oh», sorrise lui, e indicando con un cenno del capo il gruppetto di persone dietro le vetrate della stazione, in attesa dell’aereo: «Avrei creduto piuttosto che tu fossi qui di passaggio, tornando a Hollywood o a qualche teatro di Broadway... Ma non sei proprio della redazione del Call ,vero?» E lasciò scorrere lo sguardo su quegli splendidi capelli di fiamma, scotendo la testa in muta ammirazione. «Perché ti avrei notata...»

«Sono nuova», disse la ragazza. «Mi sono diplomata in giornalismo questa estate. Ho cominciato a lavorare al Call lunedì scorso. Questo è il mio primo servizio.» E con tono infantilmente confidenziale: «Ho paura d’essere come un pesce fuor d’acqua, qui a Clarendon... Sai, sono nata qui, ma la mia fami­glia mi ha portata in California quand’ero ancora bambina.» I denti bianchis­simi lampeggiarono in un sorriso d’ingenua fiducia. «Sono del tutto forestie­ra a Clarendon, e nello stesso tempo ho tanto desiderio di farmi onore al Call »,confessò dolcemente. «Vorrei proprio fare un bel pezzo su questa spedizione di Mondrick. Pare che ci siano tante cose misteriose e affascinan­ti, nella spedizione! Ma ho paura di non avere studiato troppe materie scien­tifiche all’università. Non ti dispiace, Barbee, se ti faccio qualche domanda?»

Barbee non rispose perché era immerso nella contemplazione dei suoi den­ti. Denti regolari, forti, candidi. Quel tipo di denti con cui ragazze bellissime stritolano ossa nelle pubblicità dei dentifrici. Pensò che lo spettacolo di April Bell intenta a stritolare un osso sanguinolento sarebbe stato dei più eccitanti.

«Vedo che ti dispiacerebbe, vero?»

Barbee inghiottì di nuovo e con uno sforzo tornò alla realtà. Le sorrise, perché ora cominciava a capire. Era una novellina, ma furba come Lilith. Il gattino aveva indubbiamente il compito di dare il tocco finale al commovente quadretto d’una fanciulla sola e senza aiuto, annientando così le ultime resi­stenze maschili che i suoi occhi affascinanti e la chioma fiammeggiante non avessero ancora debellato.

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