Robert Silverberg - Il tempo della Terra

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Anno galattico 3806. Corwin, un’antica colonia terrestre persa nello spazio, sta per essere distrutta dall’orda devastatrice dei Klodni. Lanciandosi in un’impresa disperata, Baird Ewing torna sul pianeta madre in cerca d’aiuto. Ma la Terra è ormai lontana dai grandi giorni di gloria. Asservita alla volontà degli abitanti di Sirio IV, debole e inerme, preda di una decadenza totale, non può offrire nulla contro l'invasione aliena. Eppure, in un edificio fuori del tempo, è nascosto il segreto che può permettere di annientare la flotta dei Klodni… Un grande romanzo di avventure spazio-temporali, presentato per la prima volta in Italia.

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Robert Silverberg

Il tempo della Terra

Introduzione

A meno che io non abbia perso il conto, cosa del tutto possibile, Stepsons of Terra è il mio sesto romanzo; cioè un’opera molto giovanile in seno alle mie opere giovanili, perché nei lontani giorni degli anni Cinquanta scrivevo un romanzo ogni pochi mesi, e ne avevo già pubblicati un paio di dozzine prima che i miei capelli cominciassero a tingersi di grigio.

Senza dubbio il mio primo libro è stato un juvenile , Revolt on Alpha C ( Pattuglia dello spazio ), che ho scritto nel 1954, quando anch’io ero praticamente un ragazzo. Poi è seguito un altro juvenile , Starman’s Quest ( Le due facce del tempo ), nel 1956, e sempre nello stesso anno il mio primo romanzo «adulto», The Thirteenth Immortal , e all’inizio del 1957 un romanzo tutt’altro che disprezzabile, Master of Life and Death ( Signore della vita, signore della morte ), che forse qui in America sarebbe ora di ristampare. Pochi mesi dopo scrissi Invaders from Earth , un altro dei miei primi libri che a tutt’oggi non mi procura il minimo imbarazzo. Col che siamo a cinque; quindi, Stepsons of Terra , scritto nell’ottobre del 1957, sarebbe il sesto. Certo, ci sono stati anche i romanzi in collaborazione con Randall Garrett, apparsi sotto la firma «Robert Randall»: The Shrouded Planet ( La grande luce ) e The Dawning of Light , del 1955 e 1956, ma non si trattava di opere solo mie. E ci sono state un paio di cose uscite sotto pseudonimo, come Lest We Forget Thee, O Earth (1957) e Invisible Barriers (1957), ma si trattava di romanzi ricavati da racconti già editi su rivista, non nati come romanzi veri e propri; a me non va di metterli in conto, e spero che anche voi siate disposti a ignorarli. Per cui, il libro che avete in mano in questo momento è il mio sesto romanzo, salvo eventuali eccezioni o note a piè di pagina.

È stato scritto su richiesta di Larry T. Shaw, un signore con gli occhiali e la pipa che curava due riviste di fantascienza, «Infinity» e «Science Fiction Adventures». Shaw, appassionato di sf da tanti anni, avrebbe avuto una splendida carriera di curatore se fosse riuscito a trovare un grosso editore, perché era dotato di ottimo gusto e riusciva a costringere gli autori a fare del loro meglio senza avere l’aria di imporre le proprie idee; ma il destino lo ha spinto a lavorare sempre per piccole case editrici, in collane dalla vita breve. Oggi si è trasferito in California, come quasi tutti coloro che all’epoca conoscevo a New York, e a Los Angeles cura una collana Ai paperback che probabilmente nessuno ha mai sentito nominare. «Infinity» era il suo orgoglio: una rivista con pochi fondi a disposizione che ospitava racconti di autori celeberrimi come Arthur C. Clarke, Isaac Asimov, James Blish, Damon Knight, C.M. Kornbluth e Algis Budrys. Ha pubblicato addirittura il primo racconto di fantascienza di Harlan Ellison. Io ero un collaboratore fisso di «Infinity», e molti dei miei racconti migliori sono usciti lì. L’altra rivista, «Science Fiction Adventures», era meno ambiziosa: una pubblicazione che aveva il solo scopo di divertire, con storie piene di azione, di intrighi interstellari e armi micidiali. Io collaboravo regolarmente anche a «SFA»; anzi, in pratica ne scrivevo numeri interi. Controllando in archivio, scopro che ogni numero ospitava un mio racconto lungo o due, di solito sotto pseudonimo: Battle for the Thousand Suns , Slaves of the Star Giants , Spawn of the Deadly Sea eccetera. Io mi divertivo a scrivere questi melodrammi spaziali, ed evidentemente si divertivano anche i lettori, perché i miei racconti (a prescindere dallo pseudonimo) in genere erano quelli che piacevano di più.

All’inizio, «Science Fiction Adventures» offriva in ogni numero «tre romanzi completi» (in realtà, racconti lunghi tra le 15.000 e le 20.000 parole), più qualche raccontino e un po’ d’articoli. Ma col settimo numero (ottobre 1957) Shaw decise di variare lo schema, offrendo solo due «romanzi», uno lungo e uno breve. Io ero il suo collaboratore più fidato, per cui mi chiese di scrivere il romanzo lungo che doveva uscire in quel numero. Gli mandai un’opera intitolata Thunder over Starhaven , che uscì sotto pseudonimo e che in seguito ampliai a romanzo vero e proprio ( Il pianeta dei fuorilegge ) . L’idea ebbe successo, perché ben presto Shaw tentò un altro esperimento: pubblicare in ogni fascicolo un solo romanzo.

Interpellò di nuovo me. Questa volta decidemmo che l’opera sarebbe uscita col mio vero nome, dato che ormai «Robert Silverberg» era la firma più famosa tra quelle che avevo usato sulla rivista; e siccome avrei firmato col mio vero nome, non avevo troppa voglia di usare tutti i luoghi comuni tipici dei pulp. In questo romanzo non ci sarebbero stati cattivi repellenti e principesse con occhi da basilisco, o disperati duelli di cappa e spada, o signorotti feudali con imperi stellari. Avrei scritto un buon romanzo di fantascienza, con una trama robusta ma senza la necessità impellente di continue avventure mozzafiato.

Lo chiamai Shadow on the Stars , e con questo titolo apparve sul fascicolo dell’aprile 1958 di «Science Fiction Adventures». La copertina, a caratteri cubitali gialli, annunciava: «UN NUOVO ROMANZO PER 35 CENTS»; e in effetti il mio libro occupava quasi tutto il fascicolo (112 pagine su 130; restò spazio solo per due raccontini e per qualche rubrica). Sostanzialmente si trattava di un romanzo sul paradosso temporale, un tema che mi ha sempre affascinato; ma conteneva come minimo una concessione alla linea tradizionale della rivista, e cioè una gigantesca battaglia spaziale contro una «invincibile armada» di «settecentosettantacinque corazzate». Comunque, come vedrete, decisi di descrivere la grande scena di battaglia in un modo del tutto insolito; e mi divertii anche a imbrogliare le carte del finale, per cui esistono due capitoli venti.

I lettori ne furono deliziati. Il numero successivo rigurgitava di lettere di elogio, tra cui una che diceva: «Silverberg sta diventando un artista molto cosciente», e asseriva che Shadow on the Stars era la sintesi di tradizioni del tutto divergenti, cioè di Robert A. Heinlein e E.E. Smith (secondo me, il romanzo doveva di più a A.E. Van Vogt). Poi «Science Fiction Adventures» sospese le pubblicazioni, per motivi indipendenti dalla qualità delle opere che io scrivevo. Nel 1958 chiusero moltissime riviste, tra cui diverse che non avevano mai pubblicato ciò che io scrivevo.

La destinazione successiva di Shadow on the Stars fu la casa editrice Ace Books. Il curatore Donald A. Wollheim acquistò il romanzo, lo intitolò Stepsons of Terra , e lo pubblicò alla fine del 1958 nella serie di «romanzi doppi» della Ace Books, accoppiato a un libro dello scrittore inglese Lan Wright.

Non ho idea di quel che faccia oggi Lan Wright. Però voi oggi tenete in mano, a diciotto o diciannove anni dalla prima edizione, il mio romanzo Stepsons of Terra , che spero vi possa ancora divertire.

Robert Silverberg

1

Ewing si risvegliò lentamente, avvolto in una coltre di freddo. Il gelo stava abbandonando gradualmente il suo corpo; testa e spalle ne erano già fuori, il resto del corpo si stava liberando. Si mosse per quanto gli era possibile, facendo tremolare la delicata ragnatela di schiuma che lo aveva avvolto durante il viaggio.

Protese la mano e spinse in giù la leva che si trovava a quindici centimetri dal suo polso. Un getto di liquido uscì dai beccucci sopra di lui, sciogliendo la ragnatela di schiuma. Il gelo abbandonò le sue gambe. Si alzò rigidamente, come se fosse vecchissimo, e si stiracchiò pigramente.

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