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Robert Silverberg: Il tempo della Terra

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Robert Silverberg Il tempo della Terra

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Anno galattico 3806. Corwin, un’antica colonia terrestre persa nello spazio, sta per essere distrutta dall’orda devastatrice dei Klodni. Lanciandosi in un’impresa disperata, Baird Ewing torna sul pianeta madre in cerca d’aiuto. Ma la Terra è ormai lontana dai grandi giorni di gloria. Asservita alla volontà degli abitanti di Sirio IV, debole e inerme, preda di una decadenza totale, non può offrire nulla contro l'invasione aliena. Eppure, in un edificio fuori del tempo, è nascosto il segreto che può permettere di annientare la flotta dei Klodni… Un grande romanzo di avventure spazio-temporali, presentato per la prima volta in Italia.

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Proseguì. All’inizio del trentesimo secolo , diceva il libro, la vita umana era stata trapiantata su più di mille pianeti dell’universo.

La grande spinta espansionistica era terminata. Sulla Terra, messo finalmente in atto un sistema di controllo totale delle nascite, era svanita per sempre la minaccia della sovrappopolazione, ed era morto anche un po’ dell’impeto che sosteneva la colonizzazione. Gli abitanti della Terra si stabilizzarono per sempre sui cinque miliardi e mezzo; tre secoli prima, quasi undici miliardi d’individui lottavano per trovare spazio su un mondo minuscolo e troppo affollato.

Con la stabilizzazione delle nascite giunse anche la stabilizzazione culturale. Fu la fine delle audaci personalità pionieristiche; si sviluppò un tipo nuovo di terrestre, privo delle spinte e delle intense ambizioni dei suoi antenati. Le colonie avevano assorbito gli uomini che sentivano il fascino dell’ignoto; chi restò sul pianeta madre diede vita a una cultura di esteti, di filosofi, di musicisti e matematici. Dapprima comparve una sottoclasse di operai specializzati, destinati ad accudire alle macchine su cui si reggeva la civiltà; poi, con lo sviluppo di robot in grado di provvedere a tutto, anche loro diventarono inutili.

La storia del quarto millennio era prevedibile. Ewing l’aveva già estrapolata dai dati precedenti, e non fu affatto sorpreso di veder confermate le sue ipotesi. Era sopraggiunta una chiusura. La cultura terrestre, servita dai robot e autosufficiente, si era chiusa in se stessa. Nascite e morti erano perfettamente bilanciate.

Con la stabilità si era creato l’isolamento. Gli uomini delle colonie non avevano più bisogno del pianeta madre, e la Terra non aveva bisogno di loro. I contatti erano diminuiti.

Nell’anno 3800 , diceva il testo, fra tutte le colonie terrestri Sirio IV era l’unica ad avere comunicazioni regolari col pianeta madre. I rappresentanti delle altre mille colonie sulla Terra erano talmente rari da rappresentare niente di più che eccezioni trascurabili.

Solo Sirio IV. Strano, rifletté Ewing, che fra tutte le colonie solo i rozzi abitanti di Sirio IV si preoccupassero delle sorti del pianeta madre. Rollun Firnik e l’Accademico avevano ben poco in comune.

Procedendo nella lettura, le speranze di trovare aiuto per Corwin diventavano sempre più deboli. A quanto sembrava, la Terra era diventata un mondo di miti studiosi; ospitava ancora qualcosa di utile nella lotta contro l’orda dei Klodni?

Forse no. Ma Ewing non intendeva abbandonare le ricerche adesso che era appena all’inizio.

Continuò a leggere per quasi tutto il pomeriggio, finché non avvertì i morsi della fame. Si alzò, spense il visore, riavvolse il microfilm, lo ripose nel contenitore. Gli occhi gli dolevano. Una parte della stanchezza fisica che Myreck gli aveva tolto si stava di nuovo insinuando nel suo corpo.

Stando al cartello affisso all’interno della porta, al sessantatreesimo livello dell’hotel c’era un ristorante. Fece il bagno e si vestì, indossando uno dei suoi migliori doppiopetti e camicia di pizzo. Controllò le camere di scoppio della pistola da cerimonia, vide che tutto funzionava perfettamente, e infilò l’arma alla cintura. Soddisfatto, accese l’apparecchio di comunicazione interna, e quando gli rispose un robinserviente disse: «Scendo a cena. Vuoi avvertire il ristorante dell’hotel di riservarmi un tavolo per uno?».

«Certo, signor Ewing».

Interruppe il contatto, si studiò di nuovo nello specchio sopra il comò, per assicurarsi che il vestito fosse in ordine. Tastò il portafoglio che aveva in tasca: era rigonfio di denaro terrestre, tanto da bastargli per tutta la durata del suo soggiorno.

Aprì la porta. In corridoio si trovava una cassetta di plastica opaca che serviva per depositare messaggi. Ewing, sorpreso, scoprì che la luce rossa in alto era accesa, a indicare la presenza di un messaggio.

Premette il pollice sulla piastra d’identificazione, sollevò il coperchio della cassetta e prese il foglio. Il messaggio era battuto a macchina, a lettere blu maiuscole. Diceva:

COLONO EWING, SE CI TIENI ALLA SALUTE, STAI ALLA LARGA DA MYRECK E DAI SUOI AMICI.

Non era firmato. Ewing sorrise freddamente: gli intrighi, le spinte da direzioni opposte, stavano già iniziando. Se l’aspettava. L’arrivo sulla Terra di un uomo delle colonie era un avvenimento piuttosto insolito; non appena si fosse sparsa la voce della sua presenza, era inevitabile che ne nascessero conseguenze e ripercussioni.

«Apriti», disse alla porta.

La porta si aprì. Lui tornò in camera e riaccese l’impianto di comunicazione interna.

Gli rispose un robot. «In cosa possiamo esserle utili, signor Ewing?».

«Credo che nella mia stanza sia nascosto qualche apparecchio elettronico per spiarmi», rispose Ewing. «Vuoi farmi il favore di mandare qualcuno a controllare?».

«Le assicuro, signore, che è del tutto impossibile…».

«Ti dico che nella mia stanza devono esserci un microfono o una telecamera nascosti. O li trovate, o mi trasferisco in un altro hotel».

«Sì, signor Ewing. Manderemo subito un investigatore».

«Bene. Adesso scendo in sala da pranzo. Se scoprite qualcosa, fatemelo sapere lì».

4

La sala da pranzo dell’hotel era sfarzosa, persino troppo. Sfere brillanti di energia luminosa fluttuavano a caso sotto il soffitto a volta, scendendo ogni tanto a livello degli occhi. I tavoli erano tutti sistemati lungo i bordi del locale, mentre al centro, dove il livello del pavimento s’abbassava, un pancromaticon ruotava lentamente, proiettando sulle persone luci multicolori.

Un robot brunito, con la testa a forma di proiettile, era immobile accanto alla porta.

«Ho prenotato», disse Ewing. «Baird Ewing. Stanza 4113».

«Certo, signore. Per di qua, prego».

Ewing seguì il robot lungo tutto il locale, poi su per una rampa di scalini che portava all’orlo più esterno della grande sala, dove c’erano alcuni tavoli liberi. Il robot si fermò di fronte a un tavolo dove sedeva già qualcuno: doveva essere una ragazza siriana, a giudicare dall’aspetto.

Il robot scostò la sedia di fronte alla ragazza. Ewing scosse la testa. «Dev’esserci un errore. Non conosco affatto questa signora. Avevo chiesto un tavolo per uno».

«Chiediamo scusa, signore. A quest’ora non sono disponibili tavoli per uno. Abbiamo chiesto alla signorina seduta qui e lei ci ha detto che non ha obiezioni a dividere il tavolo con lei, sempre che non le dispiaccia».

Ewing fece una smorfia, guardò la ragazza. Lei rispose al suo sguardo, sorridendo. Pareva quasi che volesse invitarlo a sedersi.

Scrollò le spalle. «D’accordo. Resto qui».

«Benissimo, signore».

Ewing si accomodò sulla sedia, lasciò che il robot l’avvicinasse al tavolo. Guardò la ragazza. I suoi capelli erano di un rosso acceso, acconciati in uno stile che su Corwin sarebbe stato giudicato assai poco femminile. Indossava un completo di una strana stoffa purpurea che aderiva al suo corpo, molto scollato alle spalle e sul petto. Gli occhi erano perfettamente neri. Il viso era grosso e robusto, con zigomi protesi in fuori, il che dava ai suoi occhi un bizzarro aspetto a mandorla.

«Mi spiace di averle recato disturbo», disse Ewing. «Non avevo idea che mi avrebbero messo al suo tavolo. Avevo chiesto di cenare da solo».

«Sono stata io a chiederlo», rispose lei. La sua voce era cupa, risonante. «Lei è Ewing di Corwin, se non sbaglio. Io sono Byra Clork. Noi due abbiamo qualcosa in comune. Siamo nati su colonie terrestri».

Ewing si accorse che il suo modo di fare franco, deciso, gli piaceva, anche se in Firnik lo aveva trovato offensivo. «Così sembra», le disse. «Lei è di Sirio, vero?».

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