Robert Silverberg - Ali della notte

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Ali della notte: краткое содержание, описание и аннотация

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In una Terra del lontano futuro una spaventosa catastrofe ecologica ha provocato lo sprofondamento delle Americhe e la decadenza della potenza terrestre nello spazio. La società del Terzo Ciclo si è strutturata in corporazioni feudali ed attende l’arrivo degli invasori, gli alieni che hanno salvato l’umanità dall’estinzione e che verranno a reclamare il possesso del pianeta.
Quando l’invasione arriva le misere forze della Terra vengono sconfitte, e gli invasori occupano con facilità quello che considerano un loro dominio.
L’affascinante vicenda si svolge in tre città, Roum (Roma), Perris (Parigi) e Jorslem (Gerusalemme), seguendo le avventure e gli incontri di Tomis, una Vedetta il cui lavoro, proiettare la mente negli spazi per avvertire dell’arrivo degli invasori, diventerà senza senso dopo l’invasione.
La rottura dell’equilibrio della società feudale porterà gli uomini a stabilire nuovi rapporti umani e ad incrementare i loro poteri mentali, sino ad arrivare a dominare gli invasori, che non verranno combattuti con le armi ma con l’amore e la fratellanza, contribuendo a formare una società di impensabile ricchezza.
Un romanzo leggibile su più livelli e pieno di idee, un premio Hugo più che meritato.

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Forse anche Olmayne, mentre entravamo, giunse a una decisione simile, o forse il suo innato istinto d’attrice drammatica la precipitò nell’indesiderato ruolo della dama di carità. Visitò con me la “corsia”. Passammo di giaciglio in giaciglio a testa china, la pietra di stella in mano. Pronunciammo parole. Sorridemmo quando le vittime ai primi stadi ci chiesero un gesto di conforto. Pregammo. Olmayne si fermò davanti a una ragazza nella seconda fase, i cui occhi si stavano già coprendo di uno strato corneo, e s’inginocchiò e toccò le sue guance scagliose con la pietra di stella. La ragazza parlava per oracoli, e, sfortunatamente, in un linguaggio che non comprendevamo.

Alla fine giungemmo dal caso più avanzato, l’uomo su cui già cresceva il suo magnifico sarcofago. Non so come, ma ormai la paura era scomparsa, e lo stesso accadeva a Olmayne: per molto tempo restammo immobili, silenziosi, di fronte a quello spettacolo grottesco, e poi lei mormorò: — Com’è terribile! E meraviglioso! E bello!

Altre tre capanne come quella ci attendevano.

Gli abitanti del villaggio si radunavano sulla soglia. Quando noi due apparivamo sul limitare di una capanna, le persone sane si prostravano davanti a noi, afferravano i lembi del nostro mantello, ci chiedevano con voce stridula di intercedere per loro presso la Volontà. Noi rispondevamo con le parole che ci sembravano più adatte, e in noi non c’era menzogna. Coloro che si trovavano all’interno delle capanne accettavano senza emozioni le nostre parole, quasi avessero capito che per loro non c’erano più speranze; coloro che si trovavano all’esterno, non ancora sfiorati dal male, pendevano dalle nostre labbra. Il capo del villaggio (un capo momentaneo, perché il vero capo era cristallizzato) non smetteva di ringraziarci, come se avessimo fatto qualcosa di concreto. Ma almeno avevamo recato conforto, il che non è da disprezzare.

Quando uscimmo dall’ultima casa del pianto, ci accorgemmo di un’esile figura che ci fissava da lontano: il Diverso Bernalt. Olmayne mi diede un colpetto.

— Quella creatura ci ha seguiti, Tomis. Dal Ponte di Terra fino a qui!

— Anche lui viaggia verso Jorslem.

— Sì, ma che bisogno ha di fermarsi qui? Perché in un posto così spaventoso?

— Zitta, Olmayne. Cercate di trattarlo come si deve.

— Un Diverso ?

Bernalt s’avvicinò. Il mutante era chiuso in una morbida veste bianca che attenuava la stranezza del suo aspetto. Accennò con aria triste in direzione del villaggio e disse: — Una grande tragedia. La Volontà è stata dura con questo luogo.

Spiegò di essere arrivato diversi giorni prima, e di aver incontrato un amico della sua città natale, Nayrob. Credevo si riferisse a un Diverso, ma no, l’amico di Bernalt era un Chirurgo, ci raccontò, che si era fermato lì per aiutare quant’era possibile i contadini malati. L’idea che esistesse amicizia tra un Diverso e un Chirurgo mi sembrava piuttosto strana; Olmayne, che non si preoccupava di nascondere il suo disprezzo per Bernalt, la trovò senz’altro sconveniente.

Un uomo parzialmente cristallizzato uscì fuori da una capanna, agitando le mani deformate. Bernalt si fece avanti e lo riaccompagnò dentro con grande premura. Tornato da noi, disse: — In certi momenti sono felice di essere un Diverso. Quella malattia non ci colpisce, lo sapete. — I suoi occhi s’accesero d’una luce improvvisa. — Vi do fastidio, Pellegrini? Sembrate di pietra dietro quelle maschere. Non intendo essere importuno. Debbo ritirarmi?

— Naturalmente no — risposi, pensando il contrario. La sua compagnia mi disturbava; forse il disprezzo che tutti ostentano per i Diversi era un bacillo che aveva finito per contagiarmi. — Fermatevi un poco. Vi chiederei di proseguire con noi fino a Jorslem, ma sapete che la cosa ci è proibita.

— Certo. Capisco molto bene. — Era cortese, ma freddo; l’amarezza inquieta che ribolliva in lui stava per affiorare alla superficie. Molti Diversi sono tanto bestiali e degradati da non poter neppure comprendere quanto li abbiano in odio uomini e donne delle regolari Corporazioni; ma Bernalt, chiaramente, possedeva il doloroso dono della sensibilità. Sorrise, e poi fece un cenno. — Ecco qua il mio amico.

Tre figure s’avvicinavano. Una era il Chirurgo di Bernalt, un uomo magro, di pelle nera e voce morbida, con occhi stanchi e capelli biondi, radi. Con lui stavano un ufficiale degli invasori e uno straniero di un altro pianeta. — Ho sentito che due Pellegrini sono stati chiamati al villaggio — disse l’invasore. — Vi sono grato per il conforto che avete recato a queste vittime del dolore. Sono Rivendicatore Diciannove; il distretto è sotto la mia amministrazione. Accettate di essere miei ospiti a cena, questa sera?

Ero in dubbio se accettare l’ospitalità d’un invasore, e l’improvviso scatto delle dita di Olmayne sulla pietra di stella mi disse che anche lei esitava. Rivendicatore Diciannove sembrava attendere con vivo interesse la nostra risposta. Non era alto come quasi tutti i membri della sua razza, e le braccia sproporzionate gli scendevano fin oltre le ginocchia. Sotto l’impietoso sole d’Agupt la sua pelle spessa, cerulea, acquistava una certa lucentezza, anche se egli non sudava.

Fu il Chirurgo a spezzare quel lungo, teso, pauroso silenzio: — Non c’è affatto bisogno di fare dei complimenti. In questo villaggio siamo tutti fratelli. Venite con noi, d’accordo?

Accettammo. Rivendicatore Diciannove abitava in una villa sulla sponde del Lago Medit; nella chiara luce del tardo pomeriggio mi parve di scorgere il Ponte di Terra che si perdeva lontano sulla sinistra, e addirittura l’Eyrop sulla sponda opposta. Si occuparono di noi alcuni membri della Corporazione dei Servitori, che ci servirono fresche bibite nel patio. L’invasore aveva molti dipendenti, tutti terrestri; per me, quello era un altro segno che la conquista della Terra era un fatto compiuto, pienamente accettato dalla grande massa della popolazione. Restammo a parlare per molto tempo, oltre il crepuscolo, sorseggiando le nostre bevande anche quando le pallide aurore comparvero in cielo ad annunciare la notte. Però il Diverso Bernalt si tenne in disparte, forse messo a disagio dalla nostra presenza. Anche Olmayne era melanconica e distante; un sentimento misto d’esaltazione e depressione l’aveva afferrata in quel villaggio infelice, e la presenza di Bernalt alla nostra tavola aveva dato ancora esca al suo silenzio, poiché ella ignorava quale galateo seguire di fronte a un Diverso. L’invasore, il nostro ospite, era affascinante e premuroso, e cercò a più riprese di strapparla ai suoi pensieri. Avevo già conosciuto invasori affascinanti. Nei giorni precedenti la conquista avevo viaggiato con uno di loro, che fingeva di essere il Diverso Gormon. Quello che avevo di fronte, Rivendicatore Diciannove, era un poeta sul suo mondo natale; perciò gli dissi: — Mi sembra strano che le vostre inclinazioni si possano conciliare con un presidio militare.

— Ogni esperienza serve a rafforzare l’arte — rispose Rivendicatore Diciannove. — Cerco di espandere il mio Io. E, comunque, non sono un guerriero, ma un amministratore. È dunque così strano che un poeta possa essere amministratore, o un amministratore poeta? — Rise. — Tra le vostre tante Corporazioni, non esiste quella dei Poeti. Perché?

— Ci sono i Comunicatori — dissi. — Essi servono la vostra musa.

— Ma in modo religioso. Sono interpreti della Volontà, non della propria anima.

— Le due cose sono inseparabili — dissi. — I versi da loro creati sono ispirati dalla divinità, ma vengono dal cuore di chi li ha pronunciati.

Rivendicatore Diciannove non pareva convinto. — Si potrebbe anche sostenere che in fondo tutta la poesia è religiosa, immagino. Ma questi versi dei vostri Comunicatori hanno una prospettiva troppo limitata. S’imperniano solo sull’obbedienza alla Volontà.

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