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Connie Willis: Il sogno di Lincoln

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Connie Willis Il sogno di Lincoln

Il sogno di Lincoln: краткое содержание, описание и аннотация

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Vincitore del John W. Campbell Memorial Award, ambito premio statunitense riservato agli autori più promettenti, (1987) è il primo romanzo importante di Conie Willis, un’autrice che si è poi segnalata con opere di tutto rispetto. Che accadrebbe se una donna dei nostri tempi scoprisse di poter viaggiare nel tempo grazie ai suoi poteri mentali, in particolare a una specie di ponte psichico stabilito con il generale Robert Lee, il grande sconfitto della guerra civile? Da questa premessa parte un romanzo appassionante, una cruda e realistica ricostruzione della guerra civile americana e del suo mondo, ma anche un’avventura ricca di imprevisti: per esempio; che ruolo ha nella vicenda il cavallo di Lee, Traveller? E perché un uomo dei nostri glomi sembra inspiegabilmente identificarsi con lui? Lo scoprirete con Connie Willis.

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Tornai rapidamente lungo il vialetto di ghiaia fino ai gradini scivolosi del porticato. Il vento continuava a soffiare neve sopra al pavimento di piastrelle rosse del portico e alle colonne marroni, tanto da renderle ormai bianche.

Tentai la porta, poi la spinsi con più energia. — Siete aperti? — gridai, cercando di vedere attraverso i vetri. Non c’erano altre impronte nel portico tranne le mie. ma rimasi là un altro buon minuto, spingendo di tanto in tanto, come se pensassi che Annie avrebbe potuto essersi chiusa dentro per sbaglio; dopo di che il mio essere razionale, mi disse che probabilmente lei era tornata alla macchina, così girai attorno alla casa per vedere.

Non era alla macchina, e il negozietto di regali era sbarrato, e allora smisi di fingere di non essere preoccupato e tornai di corsa sul davanti della casa, per controllare la collina antistante e il prato più sotto, dove i corpi erano stati sepolti.

In quel breve lasso di tempo il vento si era rafforzato e non riuscii a vedere che pochi metri giù per la collina. — Annie! — gridai.

Non ero sicuro nemmeno che l’avrei sentita, in caso avesse risposto, ma gridai di nuovo, pronto a lanciarmi di corsa giù per la collina, e allora vidi un lampo grigio che si muoveva fra gli alberi dall’altra parte di Arlington House. Mi misi a correre. Doveva trovarsi sul viale Cutsis. l’ampio marciapiede di cemento che saliva dalla strada di sotto. Questa strada asfaltata compiva un largo giro attorno alla collina, per non rovinare la vista che si aveva dall’alto di Arlington House, e mentre correvo mi chiesi se non fosse per quello che avevano spostato anche i corpi, perché rovinavano la vista.

Il viale non era coperto di neve, poiché lo proteggevano i grandi alberi ai lati, e feci i gradoni in discesa a due a due. tentando di raggiungerla.

Improvvisamente mi trovai presso il muro rotondo e la lastra di marmo del Kennedy Memorial. La fiamma perpetua bruciava sulla tomba al centro di un cerchio di pietre irregolari, brunite, facendo sciogliere la neve tutto attorno.

Guardai in dietro, verso l’alto. La neve scendeva praticamente in orizzontale giù dalla collina e la casa non si vedeva più; ma vidi Annie. Era a mezza strada, dietro a un basso muro, e guardava in giù verso il prato coperto di neve dove più nessuno era sepolto. Dovevo averla superata senza accorgermene, nella mia corsa giù per i gradini. Lei non mi vedeva, là in piedi mentre la guardavo impotente, ma io potevo distinguere persino l’espressione che aveva sul viso, nonostante la distanza e la neve che continuava a turbinare.

Mi era apparsa spaventata la sera prima, mentre mi raccontava del sogno, ma quell’espressione era niente in confronto al terrore che vedevo ora sul suo viso. Mi sembrava di poterli scorgere, soldati dai capelli biondi con le braccia spalancate sull’erba innevata, i fucili sotto di loro, l’inchiostro sui foglietti agganciati alle maniche che si scioglieva al tocco della neve. Potevo vedere tutto, persino il gatto, tutto riflesso sul viso di Annie, e seppi di aver fatto male a portarla laggiù.

— Annie! — urlai, slanciandomi su per il vialetto ripido, le scarpe che scivolavano sull’erba gelata. — Forza! — gridai come se stesse per cadere. — Sto arrivando!

Scavalcai a fatica il muretto di cemento. — Ti avevo perso — feci ansimando — stai bene?

— Sì — rispose lei, continuando a fissare giù dalla collina. — Raccontami di Robert Lee.

Il suo giaccone era coperto di neve. I capelli erano fradici. Doveva essere rimasta là per tutto il tempo in cui mi ero affannato a cercarla.

— Ho fatto male a portarti qui — dissi. — Morirai di freddo. Torniamo alla macchina.

— Non è mai più tornato qui?

— Conosco un posto magnifico proprio al di là dal ponte. Un grosso camino. Caffè eccezionale. Possiamo andare là a parlare di Lee. — La presi per un braccio. — Là ti dirò tutto quello che vuoi sapere.

Non sembrò nemmeno accorgersi della mia mano sul suo braccio. — Tornò qui dopo la guerra?

— No — dissi. — La vide una volta. Dal finestrino di un treno.

Annuì come se le avessi confermato qualcosa che già sapeva.

— Andiamo almeno sotto al porticato. Saremo al riparo dal vento.

— Era un uomo buono, vero?Lo dicono tutti, che era un uomo buono.

Volevo portarla via dalla neve, toglierle quel giaccone bagnato e le scarpe fradice di fronte a un fuoco perché non prendesse una polmonite, ma non sarei mai riuscito a smuoverla finché non avessi risposto alle sue domande. Lasciai andare il braccio. — Era un uomo buono, credo, almeno se si può definire così qualcuno che ha diretto il massacro di duecentocinquantamila uomini — dissi. — Era coraggioso, pieno di dignità, pietoso, gentile verso i bambini e gli animali. Tutti lo amavano, persino Lincoln.

— I suoi soldati lo amavano — disse Annie. Si era tolta i guanti e li tormentava fra le mani.

— Sì — risposi ancora. — Una volta a Cold Harbor una colonna di suoi soldati lo vide che riposava sotto un albero. Fu passata parola che “il generale Robert” stava dormendo. L’intera colonna passò di fianco a lui praticamente in punta di piedi per non svegliarlo. I suoi uomini lo amavano. Il suo cavallo lo amava.

— Duecentocinquantamila uomini — ripeté lei. — Se era un uomo buono, come poté sopportare, spingere alla morte tutti quei ragazzi? Non sarà mai riuscito a scordarlo nemmeno per un istante, vero?

— Non lo so.

— Forse è per questo che non può riposare. Per tutti quei ragazzi. — Si voltò a guardarmi. — È questa la casa del mio sogno. Nel sogno sembra la mia casa, ma non è la mia casa. È questa casa. E non è il mio sogno. — Si voltò ancora e guardò giù verso il Kennedy Memorial. La fiamma perpetua, bruciando all’interno del circolo di pietre, sembrava il fuoco da campo di un soldato. — Dimmi del gatto.

— Hai mai avuto un gatto? Quando eri piccola? — chiesi.

— No — rispose lei. — Tu pensi che sia pazza, vero? — Aveva lasciato cadere i guanti. Le sue mani, appoggiate sul basso muro ruvido, erano rosse e bagnate.

— No.

— Richard dice che mi è successo qualcosa, da piccola, qualcosa che non riesco a ricordare ma che mi provoca i sogni, e che l’albero di mele e i corpi e il gatto sono tutti simboli di quel qualcosa. Dice che il foglietto vuoto agganciato alla manica del soldato è il simbolo del messaggio che il mio inconscio mi manda ma che io ho troppa paura di leggere.

— La figlia di Robert Lee aveva un gatto di nome Tom Tita — dissi. — Un tabby rosso. Fu lasciato per errore ad Arlington quando i Lee se ne andarono. Quando una cugina, Markie Williams, andò ad Arlington per prendere alcune cose da inviare loro, trovò il gatto. Era rimasto chiuso nell’attico e si era nutrito di topi.

— Che cosa gli accadde?

Mi chinai a raccogliere i guanti. — Non lo so. — Glieli tesi. — Non dice se l’ha portato con sé oppure no. Penso che lo abbia lasciato qui con i soldati dell’Unione, che avevano occupato la casa. Non so che cosa gli accadde.

— Ho freddo — disse lei, e si incamminò davanti a me lungo il vialetto fino alla casa.

Il porticato non offriva un gran riparo. La neve stava iniziando ad accumularsi contro i gradini di legno e aveva quasi del tutto coperto il pavimento di mattonelle rosse. — Perché non andiamo a sederci in macchina per parlare? — dissi. — Qui si gela.

Sedette su una panca dipinta di nero. — L’hai trovato in un libro? — chiese. — Del gatto?

— In una lettera.

— Potrei averla letta anch’io, molto tempo fa, e poi aver dimenticato persino di averla letta. Potrei aver letto da qualche parte che Arlington era la casa di Lee e aver dimenticato anche questo.

— Come Bridey Murphy — dissi io. — Era stata ipnotizzata. Ma non poteva sognare.

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