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Connie Willis: Il sogno di Lincoln

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Connie Willis Il sogno di Lincoln

Il sogno di Lincoln: краткое содержание, описание и аннотация

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Vincitore del John W. Campbell Memorial Award, ambito premio statunitense riservato agli autori più promettenti, (1987) è il primo romanzo importante di Conie Willis, un’autrice che si è poi segnalata con opere di tutto rispetto. Che accadrebbe se una donna dei nostri tempi scoprisse di poter viaggiare nel tempo grazie ai suoi poteri mentali, in particolare a una specie di ponte psichico stabilito con il generale Robert Lee, il grande sconfitto della guerra civile? Da questa premessa parte un romanzo appassionante, una cruda e realistica ricostruzione della guerra civile americana e del suo mondo, ma anche un’avventura ricca di imprevisti: per esempio; che ruolo ha nella vicenda il cavallo di Lee, Traveller? E perché un uomo dei nostri glomi sembra inspiegabilmente identificarsi con lui? Lo scoprirete con Connie Willis.

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Presi una bottiglia termica e la riempii con ciò che restava del caffè della colazione di Broun. Ero stato in piedi per metà della notte, cercando una risposta alla domanda di Annie sul gatto di Lee. Non c’erano notizie nel secondo volume del Freeman, né nell’ Uomo di Marmo di Connelly. Avevo rintracciato una lettera di Lee alla figlia Mildred dove si menzionavano Baxter e Tom the Nipper, ma si trattava dei gatti di Mildred, e comunque non era probabile che fossero sopravvissuti ai vari spostamenti provocati dalla guerra. Robert E. Lee Junior aveva scritto a nota della lettera che a suo padre piacevano i gatti, ma solo “a modo suo e al loro posto”, il che sembrava indicare che Lee non avesse un gatto particolare suo proprio. Nulla che avevo potuto trovare nella confusione dei libri di Broun diceva niente su un gatto di famiglia presente nel soggiorno di Arlington. Alla fine avevo chiamato uno dei volontari che guidavano le visite alla casa di Arlington. Lo svegliai mentre stava dormendo, ma anche in quelle condizioni mi aveva dato una risposta. “È nelle lettere a Markie Williams” aveva detto, e mi aveva indicato dove trovarle.

La neve si era trasformata in qualcosa a metà fra pioggia e gelo, e comunque di qualità estremamente scivolosa, come mi resi conto non appena fui sulla Rock Creek Parkway. Mi ci vollero venti minuti buoni per arrivare al Lincoln Memorial e poi al di là del ponte.

Annie aspettava sul marciapiede accanto alle scale della stazione della metropolitana, proteggendosi dal gelo nel giaccone grigio. Aveva guanti di lana pure grigi, ma niente in testa, e i suoi capelli chiari erano bagnati di neve.

— Ho già trovato un tempo simile ieri, mentre tornavo dal West Virginia — dissi mentre lei entrava in macchina. Alzai al massimo il riscaldamento. — Che ne dici se lasciassimo perdere tutto e andassimo a pranzare da qualche parte?

— No — fece lei. — Voglio andare.

— Va bene — risposi. — Però può darsi che non riusciremo a scoprire niente. — Arlington era sempre aperto, anche in giornate come quella. Si trattava, dopo tutto, di un cimitero, non di un’attrazione turistica. In quanto alla casa, invece, avevo dei dubbi.

La neve gelata si faceva sempre più spessa. Non riuscivo a vedere nemmeno fino al Seabees Memorial, per non parlare del ponte. — Non ha senso — dissi allora. — Perché non…

— Ho chiesto a Richard se potevamo passare da Arlington, ieri sera, mentre tornavamo a casa. E poi gliel’ho chiesto stamattina. Non vuole. Continua a dire che sto tentando di proiettare le mie pulsioni represse su una causa esterna, che mi sto rifiutando di prendere coscienza di un trauma così terribile che non voglio nemmeno ammettere.

— E tu la pensi così? — chiesi.

— Non lo so — rispose.

— Quante volte hai fatto quel sogno dei soldati morti nel frutteto?

— Non so dire con precisione. L’ho fatto tutte le notti per più di un anno.

— Più di un anno? Sei stata all’Istituto del Sonno così a lungo?

— No — fece lei. — Sono venuta a Washington solo due mesi fa. Il mio medico mi ha mandata dal dottor Stone perché ero quello che chiamano una pleinsonne. Mi svegliavo in continuazione.

— Il dottor Stone?

— È il capo dell’Istituto, ma all’epoca si trovava in California, così fu Richard a vedermi. Rimasi all’Istituto per una settimana, mentre mi facevano tutti i tipi di test, poi avrei dovuto diventare una paziente non ricoverata, ma il sogno iniziò a peggiorare.

— Peggiorare? Come?

— Quando iniziai a farlo, non riuscivo in seguito a ricordare molto. C’era il soldato morto e la neve e l’albero di mele, ma tutto era confuso. Non confuso, in realtà, ma distante, remoto. E poi, dopo essere stata in cura all’Istituto per due settimane, improvvisamente diventò più chiaro. Una volta mi svegliai così terrorizzata che non sapevo cosa fare. — Le mani coperte dai guanti erano strette a pugno contro il ventre.

— Sei tornata all’Istituto?

— No. — Abbassò gli occhi sulle mani. — Chiamai Richard e gli dissi che avevo paura di stare sola. Lui disse di prendere un taxi e andare subito da lui, che avrei potuto rimanere là.

Non stento a crederlo, pensai. — Hai detto che il sogno si era fatto più chiaro? Intendi, come mettere a fuoco un obiettivo?

— No, non esattamente. Il sogno in sé non cambiava. Solo, mi spaventava di più. Era in qualche modo… più preciso. Iniziai a notare particolari come il messaggio sul braccio del soldato. Era stato lì tutto il tempo, solo che prima non l’avevo visto. E vidi che l’albero di mele era in fiore. Non credo di averlo mai notato, prima.

I tergicristalli stavano iniziando a coprirsi di ghiaccio. Aprii il finestrino e allungai un braccio per scrostarli. Una lastra di ghiaccio cadde a terra dal vetro. — E il gatto? Era nel sogno fin dall’inizio?

— Sì. Credi anche tu che io sia matta, come Richard?

— No. — Manovrai con attenzione il volante, per evitare di finire contro il marciapiede.

Vidi gli alti cancelli del cimitero solo quando vi arrivammo praticamente addosso, e all’interno la casa non si riusciva assolutamente a scorgere. Di solito è ben visibile fin dal Mall, al di là del Potomac. con la sua caratteristica forma che richiama un dorato tempio greco più che non la casa padronale di una tenuta.

— Robert E. Lee aveva un gatto, vero? — disse lei.

— Sì — risposi, svoltando oltre il cancello di ferro che si apriva verso il centro dei visitatori. Mostrai a una guardia imbacuccata il lasciapassare di Broun che permetteva di arrivare in macchina oltre il posteggio dei visitatori, su per la collina fino ad Arlington House. E ancora non si riusciva a scorgere che una forma vaga, la massa di una casa, persino dopo aver parcheggiato vicino alla piccola costruzione, sul retro, che ospitava il negozio di oggetti-ricordo. Annie non guardava la casa. Non appena ebbi fermato l’auto lei uscì e si diresse verso il prato, come se sapesse esattamente dove andare.

La seguii, cercando di distinguere attraverso la neve se la casa fosse aperta o no. Non riuscivo a capire. Di certo non c’erano altre auto ferme nel parcheggio, e nemmeno tracce di piedi sulla neve, che però ormai cadeva così fitta da riuscire a coprirle comunque in poco tempo. Il solo modo di sapere sarebbe stato arrivare fino alla porta sul davanti, ma Annie era già presso la prima fila di tombe, sul limite del prato, la testa china a leggere il nome inciso, come se non fosse consapevole della neve e del freddo che la circondava.

La raggiunsi e mi chinai con lei. La neve non riusciva ancora a fermarsi sull’erba, tranne che in macchie isolate, qua e là, che si scioglievano e poi gelavano, disegnando trame di ghiaccio attraverso i cespugli. Però il vento l’aveva ammonticchiata contro le pietre tombali, tanto da rendere impossibile leggere i nomi. A fatica decifrai il primo.

— “John Goulding, Luogotenente, Sedicesimo Cavalleria di New York” — lesse Annie.

— Questi non sono i soldati che erano stati originariamente sepolti qui — dissi. — Quelli erano tutte reclute. Gli ufficiali erano sepolti sulla collina di fronte alla casa.

La seconda pietra era coperta di neve. Mi chinai e la tolsi con la mano nuda, desiderando di aver portato i guanti. — Vedi? “Gustave Von Branson, Luogotenente, Compagnia K, Terzo Volontari del Vermont”. Il luogotenente Von Branson fu sepolto qui solo dopo il 1865, cioè dopo che Arlington divenne cimitero nazionale. — Mi rialzai, sfregando la mano bagnata sui jeans, e mi voltai. — Poi il comandante Meigs spostò le reclute a…

Annie non c’era più. — Annie? — feci stupidamente, e guardai lungo la fila di tombe, pensando che forse era andata oltre: ma non la vidi. Dev’essere tornata verso la casa, pensai. Forse la casa era aperta anche oggi, dopo tutto.

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