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Connie Willis: L'anno del contagio

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Connie Willis L'anno del contagio

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Per la giovane Kivrin, che si prepare a studiare dal vivo una delle epoche più oscure della storia, regno della paura, della superstizione e di tremendi flagelli, viaggiare nel tempo è un'esperienza unica e affascinante, ma in fondo non troppo difficile: l'importante è prepararsi con cura e osservare scrupolosamente tutte le regole perché il suo improvviso arrivo nel XIV secolo risulti plausibile e, soprattutto, passi inosservato. Il resto è compito di una straordinaria tecnologia che rende possibile un simile trasferimento temporale. Tuttavia il suo viaggio nel Medioevo, dove l'esistenza quotidiana è un'avventura per la sopravvivenza e dove si sta scrivendo un nuovo libro dell'Apocalisse, sarà molto più che la realizzazione di un sogno.

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Connie Willis

L'anno del contagio

Presentazione dell'autrice

Dialogando con Shakespeare

A un certo punto ne Il nome della rosa c'è una riflessione che per me è stata rivelatrice, dove Umberto Eco afferma di aver sempre saputo che i libri parlano ai lettori, ma di non essersi mai reso conto che i libri parlassero tra loro. Letteratura per me significa appunto questo: un'interminabile conversazione tra i libri. Quando si scrive, si dialoga con Shakespeare, si dialoga con Sofocle, si può dire: «Già, però hai dimenticato questo aspetto!» Con ciò non voglio sostenere che siamo tutti ugualmente brillanti o arguti, ma solo che tutti partecipiamo alla stessa conversazione.

Ho cominciato con la fantascienza perché nessuno scriveva quello che io volevo scrivere, anche se tutti usavano concetti che avrei potuto tranquillamente utilizzare. Allora mi sono detta: «Per raccontare questa storia e anche quest'altra, posso usare i viaggi nel tempo. Posso usare gli alieni, oppure i robot…». Io continuo a dialogare con Asimov e Heinlein. Ogni volta che scrivo una storia sui robot, devo tenere presenti le leggi della robotica di Asimov, e anche tutte le altre storie di robot che ho letto. A mio giudizio, però, in questo momento nella fantascienza "non c'è più un centro", per usare un'espressione familiare. Non solo siamo in troppi, ma non siamo neppure impegnati nella stessa conversazione. Una cosa che mi turba profondamente, ad esempio quando mi capita di tenere una lezione al Clariono da un'altra parte, è scoprire l'ignoranza abissale di molti partecipanti sul passato, sulle radici della fantascienza. Non hanno mai letto i classici e così continuano a reinventare la ruota… ma senza la profondità di un tempo.

Doomsday Book [1992; L'anno del contagio] è un dialogo con gli scrittori di fantascienza, con gli storici e, come ho scoperto alla fine, con me stessa. È un libro sulla fine del mondo. Molto tempo fa, in una tavola rotonda a un congresso mondiale di fantascienza, mi sono trovata a difendere la guerra nucleare solo per ravvivare un po' la discussione. Tutti dicevano: «Non siamo in grado di prevedere cosa accadrà, perché prima d'ora non è mai accaduto niente di simile». «Ma certo che è successo!» ho ribattuto. «La fine del mondo c'è già stata. Vi ricordate la Morte Nera?» Risposta: «Ma non c'erano radiazioni». Secondo me, la Morte Nera era proprio come le radiazioni: era dappertutto e nessuno aveva idea di quale fosse la causa. Non potevano fermarla, non la vedevano, non la capivano e la peste continuava ad uccidere una miriade di persone. Mi sono ispirata a questo, pensando al fatto che la gente non sapeva nel modo più assoluto cosa fosse la Peste, perché per loro non aveva alcuna realtà intrinseca.

Quando ho cominciato a fare ricerche sulla Peste, senza sapere ancora con precisione che tipo di libro avrei scritto, ho scoperto che anche gli storici si limitavano spesso a conclusioni banali: «Per un contadino del Medioevo la morte non aveva lo stesso significato che ha per noi, perché era un fatto abituale. Ci vivevano in mezzo, continuamente». Ma affermazioni di questo genere sono in aperta contraddizione con tutti i resoconti che ci sono pervenuti dal Medioevo, come ad esempio la testimonianza di un abitante di Vienna nel 1347: «Oggi ho sepolto mia moglie e i miei cinque figli nella stessa fossa. Niente lacrime. È la fine del mondo». E la fine del mondo è sempre la stessa; sempre quell'incredibile, soverchiante sensazione di impotenza, per cui ci si dibatte alla ricerca di una ragione, di qualcuno a cui dare la colpa. Le cose non cambiano mai: quando le persone hanno paura, reagiscono sempre in un modo ben preciso.

Nel mio libro c'è un'epidemia nel passato e una nel presente: purtroppo, la reazione psicologica è molto simile in entrambi i casi. Ma attenzione, non è un libro sull'AIDS, se non in termini di reazione psicologica, di cui a mio giudizio l'AIDS offre un esempio classico. In realtà, per i vettori della malattia, mi sono ispirata all'epidemia di Spagnola del 1918.

Una delle più grandi idiozie dei giorni nostri è la convinzione che, chissà come, avremmo sconfitto le malattie e quindi non ci sarebbe più nulla da temere. Infatti, le epidemie di colera continuano a flagellare il Sud America, la tubercolosi è ricomparsa, così anche lo stafilococco, in forme nuove, molto più insidiose e resistenti. Quanto è sottile lo strato di vernice della nostra civiltà! Non credo di essere contro la scienza, tutt'altro, ma certo sono contro l'arroganza. Sono proprio quelli che credono di sapere tutto, di aver previsto tutto, a diventare i "cattivi" in Doomsday Book, quelli che non vogliono ammettere che la natura sia più forte di noi e che ci siano cose che non possiamo controllare e alle quali non possiamo opporci.

Questo è un libro che parla anche della fede religiosa, e se c'è un'altra cosa che non sopporto degli storici, è proprio la spocchia che accompagna affermazioni del tipo: «Quella gente credeva in Dio… ah, ah, ah, guarda un po' cosa gli è successo!» Credo invece che a quell'epoca la fede in Dio non fosse una semplice credenza superstiziosa, ma un vero tentativo di comprendere l'universo, di percepire l'esistenza di un potere superiore, cioè un potere buono, amorevole, anche se non veniva necessariamente in soccorso dell'individuo. Secondo me la fede cristiana ha moltissimo da offrire in questo senso; Cristo non è stato salvato da Dio sulla croce all'ultimo momento. È una religione complicata, anche se molte delle versioni che ne abbiamo al giorno d'oggi sono effettivamente troppo semplicistiche («Vuoi la Cadillac? Prega e l'avrai»). Questa non è la vera religione cristiana. Vi è stato chi nel Medioevo ha raggiunto vette incommensurabili di bontà, coraggio e compassione, proprio in virtù dell'intervento della fede nella forma mentale degli individui. Non credo proprio che spetti a noi criticare o disprezzare. Meglio guardare a come ci comportiamo noi!

In Doomsday Book vengono narrate due storie, ma non come se fossero due romanzi riuniti in un unico volume. Semplicemente, la narrazione si alterna fra l'Oxford del 2054 con il professor Dunworthy e il Medioevo con Kivrin, la storica che è l'allieva del professore. E far collimare le due storie, emotivamente, non certo materialmente, è stata la parte più difficile. È qui infatti che ho rischiato di arenarmi. Non avevo mai scritto un libro in cui la tensione di una delle due vicende innesca eventi assolutamente comuni nell'altra, e dove inoltre la tensione non è generata da quello che accade ai personaggi in azione, ma da quello che accade agli altri personaggi fuori scena, in modo che chiunque sia indotto (almeno, spero) a preoccuparsi di quello che sta succedendo a chi sta dietro le quinte. È una tecnica molto efficace, se si è in grado di padroneggiarla come si deve, ma mi ha fatto dannare l'anima.

In Doomsday Book c'è tutto: mia figlia che parte per il college, la mia personale opinione sui suonatori di campane della nostra chiesa, le piccole lotte e gli intrighi politici dentro l'università, quello che penso della gente che rinuncia alle proprie responsabilità, e il fascino che hanno per me Oxford e l'Inghilterra. … queste erano tutte le cose che consciamente sapevo di mettere nel libro. Ma a un livello più profondo, filtrano anche moltissime cose di cui non si è affatto consapevoli. Quando si scrive un saggio, si attìnge al proprio bagaglio di cognizioni. Quando si scrive un libro, si racconta quello che non si sa e che si cerca di scoprire. In narrativa, si scoprono cose che non si è coscienti di sapere finché non vengono scritte sulla pagina. Io ho imparato moltissimo su me stessa. Ci sono i ricordi d'infanzia che riemergono, fra cui un episodio che mi è capitato da bambina… anzi, tutta la struttura del libro è basata su questo, è tutto lì, parola per parola. Quando si vive un'esperienza di quel genere, gli aspetti fisici restano impressi con assoluta nitidezza: gli odori, i sapori, gli abiti che si indossavano, com'era il tempo e via di seguito. Per me è stato così. C'era di mezzo un salvataggio, perché mi ero trovata sola, con dei bambini piccoli a cui badare. C'entrava il fatto di aver letto male l'ora, sì, questa è stata la causa di tutto. E poi informazioni e dati insufficienti e totalmente sbagliati sulla situazione reale, tanto che avrei potuto essere salvata in qualunque momento… ma io non lo sapevo! È tutto nel libro! È una cosa incredibile, che mi ha sconvolta.

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