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Connie Willis: Il sogno di Lincoln

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Connie Willis Il sogno di Lincoln

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Vincitore del John W. Campbell Memorial Award, ambito premio statunitense riservato agli autori più promettenti, (1987) è il primo romanzo importante di Conie Willis, un’autrice che si è poi segnalata con opere di tutto rispetto. Che accadrebbe se una donna dei nostri tempi scoprisse di poter viaggiare nel tempo grazie ai suoi poteri mentali, in particolare a una specie di ponte psichico stabilito con il generale Robert Lee, il grande sconfitto della guerra civile? Da questa premessa parte un romanzo appassionante, una cruda e realistica ricostruzione della guerra civile americana e del suo mondo, ma anche un’avventura ricca di imprevisti: per esempio; che ruolo ha nella vicenda il cavallo di Lee, Traveller? E perché un uomo dei nostri glomi sembra inspiegabilmente identificarsi con lui? Lo scoprirete con Connie Willis.

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Il numero dell’agente di Broun sulla costa occidentale era occupato. Comperai una tazza di caffè da asportare e tornai alla macchina. Annie dormiva ancora, raggomitolata sul sedile con il braccio sinistro stretto al corpo. I capelli erano indietro e scoprivano le guance arrossate. Tolsi il coperchio dalla tazza, la misi fra le ginocchia e avviai il motore. Annie si mosse leggermente e spostò l’altro braccio a reggere il sinistro. — Togliete le tende — mormorò.

Voltai la macchina. Dopo qualche istante aprii la portiera e versai il caffè per terra, poi tornai nella stazione e chiamai Richard.

15

Dopo la resa, a Lee fu offerto l’incarico di presidente di una piccola università a Lexington. Si recò laggiù a cavallo di Traveller per disporre l’abitazione per la famiglia. “Parte domani” scrisse sua moglie “a cavallo perché preferisce viaggiare così e inoltre perché non vuole separarsi nemmeno per poco dal suo amato destriero, il compagno di tante dure battaglie.”

Portai Annie da Broun. — Possiamo portare le bozze più tardi al Federal Express — dissi. — Questa pioggia sembra proprio voglia diventare neve, e non me la sento di guidare fino a New York questa sera. Devo controllare i messaggi telefonici e ritirare la posta.

Avevo detto a Richard di parcheggiare alcune strade più indietro, così che Annie non avrebbe visto la macchina. Trovai la porta principale chiusa ma non a chiave ed, entrando, vidi il siamese di Broun accoccolato sul gradino inferiore della scala. Il mio primo pensiero fu che era rimasto chiuso dentro, in qualche modo, quando eravamo partiti per Fredericksburg, ma poi vidi la posta sistemata in ordine sul tavolo dell’ingresso e una giacca appesa all’attaccapanni. Annie stava sulla porta della veranda, con il cappotto e i guanti ancora addosso, e il braccio sinistro sostenuto dall’altro, contro il corpo. Guardava le violette africane. Erano appena state innaffiate: chiazze d’acqua e di terra erano sul tavolo, attorno ai vasi.

— Sei tu, Jeff? — disse Broun, e scese in fretta le scale. Indossava una giacca da camera nera in cui sembrava avesse anche dormito. — Grazie a Dio! — disse, e mi abbracciò. La barba non gli era per nulla cresciuta, in quella settimana di separazione, e mi sfregò ruvidamente l’orecchio. — Stai bene? Ho chiamato tutti gli alberghi di Fredericksburg, ma nessuno conosceva il tuo nome. — Si allontanò di un passo e mi scrutò con i suoi occhi acuti. — Allora hai ricevuto il messaggio di Richard?

— Quale messaggio? — feci, e mi girai per togliere il cappotto.

— Sto benissimo, ora che quelle dannate bozze sono terminate, che pasticcio! Paragrafi spostati, altri mancanti, errori di battitura. Alla fine ho chiamato Annie, eccola, e l’ho convinta a venire giù ad aiutarmi. Ricordi il mio capo, vero Annie? — dissi. Sistemai il cappotto sul gancio. — L’uomo che è responsabile di tutte le nostre disgrazie di questi ultimi giorni? Broun, ricordi Annie?

— Certamente — disse Broun, e le strinse la mano.

— Salve — disse lei seria. Non riuscii a decifrare la sua espressione.

— Si gela in questo ingresso — feci. — Non hai acceso il riscaldamento? Andiamo nella veranda. — Presi sottobraccio Annie e la condussi nella stanza. — Oh, bene, qui fa più caldo. Annie, dammi quel cappotto bagnato.

Broun entrò a sua volta, e si fermò presso la porta. — Perché non mi hai detto che ti eri ammalato, Jeff? — disse. — Ho pensato che ci fosse qualcosa che non andava, la sera che tornasti da Springfield. Perché non mi hai detto che avevi dolori al petto? Avrei cancellato il viaggio. Sei stato da un dottore?

“Gli esami mostrano un problema con l’elettrocardiogramma” aveva detto Richard. “Hai notato dolori al petto?” Broun doveva aver pensato che il messaggio fosse per me, era tornato immediatamente per aiutarmi, ma ormai era troppo tardi. Guardai Annie. Si era tolta i guanti ed era indietreggiata fino al tavolo su cui stavano le violette africane. Era rimasta là in piedi stringendo i guanti e fissandomi, aspettando di sentire cosa avrei detto.

— Non sono io ammalato — dissi. — È Annie. L’ho portata a casa per farla entrare in ospedale. — Le presi le mani. — Ho chiamato Richard — dissi. — Sarà qui da un momento all’altro.

Rimase immobile per un momento, come se stesse per parlare, poi si piegò in avanti, come aveva fatto Lee quando Traveller si era impennato.

— Soffri di angina — dissi. — È per questo che ti fa male il polso. Lee soffrì di angina durante tutta la guerra, aveva dolori alla spalla, alla schiena, lungo il braccio. Morì di attacco cardiaco. I sogni sono un avvertimento. Anche i sogni di Lincoln. Devi assolutamente vedere un medico.

— E così hai chiamato Richard.

— Sì.

Sedette sul divano. — Avevi promesso — disse.

— Ma prima di sapere che i sogni ti stavano uccidendo. Sto facendo questo solo per il tuo bene.

— Come Richard — disse, stringendo i guanti che teneva in grembo.

Mi inginocchiai vicino a lei. — Annie, ascoltami, il sogno che hai fatto stamattina non era su Antietam. Ti ho mentito. L’incontro che hai sognato si tenne alla Grace Church a Lexington. Lee vi partecipò e rimase tutto il pomeriggio là al freddo, poi andò a casa a piedi sotto la pioggia ed ebbe un attacco di cuore. Non lascerò che questo accada anche a te!

— Io devo farlo. — Strinse i guanti spasmodicamente. — Devo arrivare fino alla fine. Ti prego, cerca di capire — disse, gravemente, gentilmente. — Io non posso lasciarlo. Ho promesso di sognare al suo posto. Poveruomo… devo provare ad aiutarlo. Non lo posso lasciare. Sta morendo.

— Non sta morendo, Annie! — gridai. — È già morto. È morto da più di cento anni. Stai tenendo la mano di un cadavere. Non puoi fare nulla per lui! Non riesci a capire?

— L’ho promesso.

— Anch’io ho fatto delle promesse, ma che sia dannato se ti lascerò morire per una maledetta segreteria telefonica! Perché di questo si tratta, di una specie di messaggio pre-registrato che va in funzione quando stai per avere un attacco cardiaco e ti avverte di chiamare il dottore.

— No, non è così — rispose Annie. — Sono i sogni di Lee.

— I sogni di Lee — fece Broun. Si appoggiò allo stipite della porta come se non riuscisse a stare in piedi.

— Sono sogni prodromici, Annie! Sono causati dall’angina!

Broun fece un passo verso Annie. — Stai facendo i sogni di Robert E. Lee? — profferì con voce incerta, articolando le parole, come se non riuscisse a respirare.

— No — dissi io.

— Sì — disse Annie.

Broun tastò alla cieca dietro di sé per trovare una sedia e si lasciò cadere pesantemetne. — I sogni di Lee — ripeté.

— Annie, non riesci a capire? — la implorai. — Sei in pericolo. Devo portarti subito all’ospedale.

— Non posso. Ho promesso.

— Che cosa hai promesso? Di avanzare fino a quel dannato muro e farti uccidere? Tu non sei uno dei soldati di Lee! I suoi soldati dovevano stare con lui. Altrimenti sarebbero stati fucilati per diserzione.

— Non è per questo che rimanevano — disse Annie.

Era vero: scalzi e sanguinanti, non l’avevano abbandonato, nemmeno alla fine. Andremo avanti a combattere per te, generale Robert.

— I soldati di Lee sapevano nel momento in cui si erano arruolati che avrebbero potuto venire uccisi. Tu no. Tu non ti sci nemmeno arruolata.

— E invece mi sono arruolata — disse lei. — Quel giorno che andammo a Shenandoah. Allora mi resi conto che non potevo lasciarlo, che dovevo restare e aiutarlo ad avere i sogni.

— Quel giorno che andammo a Shenandoah non sapevi di avere l’angina!

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