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Connie Willis: Il sogno di Lincoln

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Connie Willis Il sogno di Lincoln

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Vincitore del John W. Campbell Memorial Award, ambito premio statunitense riservato agli autori più promettenti, (1987) è il primo romanzo importante di Conie Willis, un’autrice che si è poi segnalata con opere di tutto rispetto. Che accadrebbe se una donna dei nostri tempi scoprisse di poter viaggiare nel tempo grazie ai suoi poteri mentali, in particolare a una specie di ponte psichico stabilito con il generale Robert Lee, il grande sconfitto della guerra civile? Da questa premessa parte un romanzo appassionante, una cruda e realistica ricostruzione della guerra civile americana e del suo mondo, ma anche un’avventura ricca di imprevisti: per esempio; che ruolo ha nella vicenda il cavallo di Lee, Traveller? E perché un uomo dei nostri glomi sembra inspiegabilmente identificarsi con lui? Lo scoprirete con Connie Willis.

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— Bastardo — ripeté lui. — Non te la farò passare liscia. Ti avevo chiamato, non te lo ricordi questo? Per dirti che avevo una paziente che faceva sogni terribili e non sapevo che cosa fare. Ti ho chiamato e tu non eri a casa.

— Mi hai chiamato perché ti serviva il mio aiuto o perché volevi procurarti un alibi? — dissi, ma lui aveva già sbattuto la porta alle sue spalle.

Infilai il cappotto. — Potrebbe tentare di seguirci — dissi. — Ma ha parcheggiato almeno un isolato più in là. Se andiamo subito possiamo seminarlo. — Raccolsi i guanti di Annie e glieli gettai.

— Hai dei soldi? — chiesi a Broun. Lui si frugò in tasca e tirò fuori una ventina di dollari e qualche moneta. — Solo questi? — gli dissi ad alta voce, come se stessi tentando di svegliarlo.

Lui frugò nella tasca della giacca appesa al gancio con la mano destra, stringendo ancora la segreteria con la sinistra, e tirò fuori una manciata di biglietti. Me li tese e poi si sedette pesantemente sul divano.

— Grazie — dissi. Afferrai la valigia di Annie e la spinsi verso la porta. Broun non disse nulla. Lo vidi attraverso la finestra mentre avviavo il motore, ancora seduto stringendo la segreteria telefonica, come un uomo intontito.

La pioggia si stava trasformando in neve. Percorsi vie laterali fino alla Ohio Drive e poi girai in Memorial Parkway. Dopo che attraversammo il ponte controllai nello specchietto e poi superai l’uscita di Washington Memorial.

— Non ti porto fino all’aeroporto — dissi. — Richard può essere dietro di noi — aggiunsi velocemente, perché non pensasse che si trattava di un’altra trappola e che la stavo portando all’ospedale. — Ti sto portando alla fermata della metropolitana di Arlington. Puoi prenderla per andare all’aeroporto, se vuoi, oppure alla stazione dei treni o degli autobus, e Richard non potrà sapere dove sei andata. — E neanch’io, pensai.

Annie accennò di sì senza guardarmi, stringendo in grembo le mani guantate. Accostai la macchina al muro bianco che segnava l’entrata del metrò e fermai.

— Ti ho sognato — disse. — Mentre eravamo in macchina, questo pomeriggio. Ero in camera mia, a casa, a letto appoggiata contro i cuscini. Tu sei entrato e hai detto “Ti accompagnerò a Fredericksburg” e io volevo venire con te, ma non potevo. Non potevo nemmeno risponderti. Riuscii solo a scuotere la testa. — Si voltò a guardarmi, gli occhi pieni di lacrime. — Era la prima volta che ti sognavo. Ho sognato Richard e Broun, ma te mai, Jeff. Indovina chi eri? Ero così felice di vederti.

— Non lo so — dissi, sebbene avevo indovinato fin dal principio quale parte stessi giocando. — Forse il dottore di Lee? Ti accompagnerei a Fredericksburg, sai. O dovunque tu voglia.

L’avrei accompagnata? Anche sapendo dove la stavano portando i suoi sogni, sarei riuscito ad accompagnarla laggiù? Oppure avrei di nuovo chiamato Richard? Scesi dall’auto e presi la sua valigia dal bagagliaio, poi l’appoggiai all’inizio della scala. Aprii la sua portiera. Lei piegò un pezzetto di carta, se lo mise in tasca e uscì.

Le diedi il denaro di Broun e tutti i pochi soldi che avevo con me. — Ci sono circa cinquecento dollari. Dovrebbe bastarti per tornare a casa o dove tu voglia andare.

— Grazie — disse.

— Questa è la Linea Azzurra. Puoi prenderla per andare direttamente all’aeroporto. Se invece vuoi andare ad Amtrack cambia sulla Linea Rossa al Metro Center e arriverai fino alla stazione.

Chinò la testa per trafficare nella borsa e mise via i soldi. — Non saprò che cosa ti succederà — dissi. — Promettimi solo che andrai da un medico.

— Dopo la guerra — disse lei. Prese il foglietto ripiegato che aveva in tasca e me lo diede.

Annuii. — Dopo la guerra.

Alzò la mano e mi scostò i capelli dalla fronte. — Ero così felice di averti visto — disse. Alzò la valigia con la mano sinistra, la rimise giù sul marciapiede bagnato, la alzò di nuovo con la destra e si allontanò per le scale.

Tornai sul marciapiede e rimasi lì tutto il tempo in cui lei si allontanava, tenendo in mano il biglietto ripiegato e guardando la collina verso Arlington House. Iniziò a nevicare. Misi il foglietto in tasca e tornai a casa.

Non lo aprii fino al giorno dopo, per paura che avesse scritto l’indirizzo di quella casa con il lungo porticato e il frutteto di meli e che anch’io, come Richard, avrei tentato di seguirla.

Era ancora umido. Lo aprii con cura, per non romperlo, e lessi. Aveva scritto in blu, con la matita delle bozze: “Tom Tita, Arlington House”.

16

Lee sopravvisse due settimane a quel pomeriggio in Grace Church. Per la maggior parte del tempo giacque disteso, in silenzio, oppure sonnecchiò. Fuori pioveva e i fiumi intorno a Lexington andarono in piena, così che fu impossibile a Rob giungere al suo capezzale. Per diverse notti l’aurora boreale accese il cielo, come quella volta a Fredericksburg. Lee parlava molto poco, qualche volta mormorava parole sconnesse durante il sonno, e quando il medico gli disse “Deve affrettarsi a guarire: Traveller è da troppo tempo rinchiuso in stalla e ha bisogno di esercizio” lui si limitò a scuotere la testa, incapace di dire nulla.

Morì il dodici di ottobre, dicendo: “Togliete le tende”, e andò ad affrontare qualche nuova battaglia, senza portare con sé Traveller. Traveller seguì la processione funebre, a testa china, con un mantello nero che gli copriva il dorso. Poi fu portato a casa, ad aspettare la fine. Sognò qualche volta di Lee? Chissà se i cavalli sognano.

Quando arrivai a casa Broun era ancora seduto sul divanetto della veranda. Il siamese gli era balzato in grembo, e allora lui aveva appoggiato la segreteria telefonica da una parte per accarezzarlo.

Si alzò in piedi non appena entrai, facendo balzare il gatto al suolo, e mi venne incontro, mettendomi un braccio attorno alle spalle. Non mi chiese che cos’era successo e allora, proprio perché non me lo chiese, proprio perché non disse “Come hai potuto lasciarla andare? È ammalata. Ha bisogno di un medico’” io gli raccontai che l’avevo portata alla fermata del metrò, e poi gli raccontai tutto il resto.

Lui non disse “Sono solo sogni”, né mi raccontò le teorie che aveva raccolto in California. Disse solo, piano: — Fu una guerra terribile, la Guerra Civile. Così tanti ragazzi… Ho fatto male ad andare in California. Su una pista sbagliata, correndo dietro ai sogni di Lincoln, mentre avrei dovuto essere qui.

— Non è stata colpa tua — dissi, e poi andai a letto, nonostante fosse il primo pomeriggio, e dormii per due giorni. Quando mi svegliai, in studio c’era un elettricista, che aggiustava la segreteria telefonica.

— In caso lei chiamasse — disse Broun.

Portai le bozze a New York. Quando tornai, iniziammo il romanzo sui sogni di Lincoln. Feci per Broun il lavoro di gambe, lo accompagnai in macchina, andai a scovare fatti oscuri che non interessavano a nessuno, e sognai Annie.

Mentre ci trovavamo a Fredericksburg io non avevo sognato per nulla, come se i sogni di Annie bastassero per tutti e due, ma ora sognavo quasi tutte le notti, e nei sogni Annie stava bene. Sognai che aveva lasciato un messaggio sulla segreteria. “Sto bene” diceva, “non volevo che ti preoccupassi”.

“Dove sei?” chiesi io, anche se sapevo che si trattava solo di un messaggio, che lei non era lì. Non ero mai riuscito a liberarmi dell’abitudine di rispondere anche alla gente che non si trovava davvero lì. E allora, se io non c’ero riuscito, come potevo pretendere che Annie potesse, con Lee che le parlava notte dopo notte, raccontandole i suoi sogni?

“Sto bene, Jeff” mi disse lei in sogno. “Stanno occupandosi di me.” Non era un messaggio. Era davvero lei al telefono, e stava bene, stava bene. Era andata a casa, ritornata in quella casa con il lungo portico e l’albero di mele, e una volta ritornata era andata dal medico. “Pensavo che avessi paura che ti interrompessero i sogni”.

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