Connie Willis - Il sogno di Lincoln

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Vincitore del John W. Campbell Memorial Award, ambito premio statunitense riservato agli autori più promettenti,
(1987) è il primo romanzo importante di Conie Willis, un’autrice che si è poi segnalata con opere di tutto rispetto.
Che accadrebbe se una donna dei nostri tempi scoprisse di poter viaggiare nel tempo grazie ai suoi poteri mentali, in particolare a una specie di ponte psichico stabilito con il generale Robert Lee, il grande sconfitto della guerra civile? Da questa premessa parte un romanzo appassionante, una cruda e realistica ricostruzione della guerra civile americana e del suo mondo, ma anche un’avventura ricca di imprevisti: per esempio; che ruolo ha nella vicenda il cavallo di Lee, Traveller? E perché un uomo dei nostri glomi sembra inspiegabilmente identificarsi con lui? Lo scoprirete con Connie Willis.

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— Stavo dormendo — disse, guardando la neve cadere sulle tombe. — Nel sogno. Stavo dormendo all’aperto, sotto il melo, nel letto che avevo da piccola, che però nel sogno aveva un copriletto bianco e verde. Stavo dormendo e il farmacista venne a svegliarmi e mi disse che era ora di andare, allora mi alzai e mi vestii. Misi il vestito con la cintura rossa che indossavo a Pasqua quando avevo dieci anni, e un mantello azzurro. Sapevo che dovevo sembrare più graziosa possibile e all’ultimo minuto, quando ero ormai vestita e tutti mi stavano aspettando, mi fermai e feci il letto. Chiesi al farmacista di aiutarmi. Anche lui stava vestendosi. Stava mettendosi i polsini, ma si interruppe per aiutarmi, e mentre facevamo il letto continuava a piangere. «È ora di andare» disse poi. E durante tutto il sogno ho avuto la sensazione che fosse la mattina di Pasqua.

Si interruppe e si girò per guardarmi, con aria d’attesa, aspettando il mio aiuto. E io non potevo aiutarla più di quanto Ben potesse impedire di portar via il corpo di Caleb.

E che cos’altro avrei potuto aspettarmi? L’avevo portata qui, in una città che era un cimitero, e le avevo raccontato di altri cimiteri — Arlington e Chancellorsville e Gettysburg — e, come se non fosse abbastanza, ogni sera le avevo letto un libro sul tema del Dovere, centinaia e centinaia di pagine su gente che si era arruolata senza sapere perché, di gente che ormai doveva arrivare fino alla fine malgrado non avesse messo in conto, prima, di poter anche morire.

Dove pensavo che ci avrebbe condotti, questa strada “dopo la seconda svolta per Manassas, verso Chancellorsville”, se non precisamente qui? Avrei dovuto saperlo fin dall’inizio, che per portarla via da Arlington, per aiutarla a superare Fredericksburg e la morte di Jackson e persino Gettysburg sarei dovuto arrivare qui, che tutte le strade su cui Traveller aveva portato Lee dovevano convergere qui, in un frutteto vicino ad Appomattox Court House. Aveva sognato un frutteto fin dalla prima volta, un frutteto e una casa con un porticato. Avrei dovuto capirlo fin da allora.

Lee aveva perso un terzo dei suoi uomini a Sayler’s Creek. Il giorno seguente, il sette di aprile, Grant scrisse offrendo le condizioni della resa. Sheridan si stava spostando a nord-ovest per bloccare la ritirata ad Appomattox Station e Meade attaccava la retroguardia. La fanteria non era forte abbastanza per aprirsi la via combattendo. La sola possibilità era di tentare la fuga verso ovest, fra le montagne, scivolando sul fianco dell’esercito dell’Unione, e per i due giorni successivi ci avevano provato.

All’alba del nove aprile, la domenica delle Palme, tentarono di rompere il cerchio presso Appomattox Station, ma l’attacco fallì. Lee si incontrò con i propri ufficiali in un frutteto ad Appomattox Court House e disse loro che avrebbe preparato un incontro con il generale Grant. I termini della resa furono firmati nella casa di Wilmer McLean, un uomo che originariamente abitava vicino all’incrocio di Manassas e che dopo la seconda battaglia di Bull Run si era trasferito nel piccolo paese di Appomattox Court House, dove “il rumore di una battaglia non li avrebbe mai raggiunti”. La casa era una fattoria a due piani, di mattoni, e aveva un porticato dal tetto di legno che correva lungo tutta la facciata.

— Non possiamo rimanere qui con questa neve — dissi. — Si sta facendo buio. Perché non andiamo a cena? La nostra cameriera non saprà che fare, senza le nostre tazze da riempire.

Annie era a capo scoperto e i suoi capelli si stavano bagnando. Già le ciocche umide si arricciavano attorno alle guance.

— Ti prego — disse, e tese il braccio verso di me, ed era già così lontana, lontana come Ben era stato da Nelly, allontanato non dal morto che giaceva fra di loro ma dal proprio dolore.

Forse Annie aveva ragione, e il sogno significava che la guerra era quasi terminata. Forse anche i sogni erano quasi terminati, e allora tutti e due avremmo potuto tornare a casa, liberi. Ad Appomattox Lee aveva ottenuto da Grant che gli uomini potessero conservare i propri cavalli.

— Non era Pasqua — le dissi, guardando giù verso le tombe, oltre i negozi di souvenir e i tetti e gli alberi fino alla linea del fiume, chiedendomi se Lee stesse pensando a Traveller quando aveva chiesto a Grant di non confiscare i cavalli. — Era la domenica delle Palme.

Lee si era alzato e vestito con i suoi abiti migliori, l’uniforme e la cintura rossa e il mantello militare azzurro perché, come disse, era probabile che lo facessero prigioniero. “Non mi rimane altro da fare che andare a incontrare il generale Grant” aveva detto agli ufficiali, “mentre preferirei mille volte la morte.” Ascoltò le opinioni di Longstreet e degli altri ufficiali e poi si diresse a cavallo alla casa di Mc Lean. Lungo la strada vide Sam McGowan, il suo ufficiale di collegamento, che si stava cambiando i panni infangati per indossare l’uniforme, e intanto piangeva come un bambino.

Annie e io scendemmo la collina, lei tenendomi per mano, i gradini già scivolosi e le tombe confuse nell’oscurità imminente. Il taxi era ancora là, con il motore acceso e i tergicristalli in funzione, paziente come un cavallo.

Lo mandai a casa e portai Annie alla caffetteria e poi le raccontai degli ultimi giorni prima della resa. La nostra cameriera ci versava in continuazione liquido bollente, che faceva annebbiare i vetri impedendoci di vedere la neve scura di fuori.

— Dicono che domani dovrebbe alzarsi la temperatura e incominciare a piovere, ma io non ci credo — disse la cameriera. — Spero che non dobbiate andare da nessuna parte.

— No — dissi, desiderando crederci. — Non dobbiamo andare da nessuna parte.

Portai Annie in camera e la misi a letto. — Io rimarrò qui — le dissi, come se lei stesse per partire, e le tenni la mano fino a che non si addormentò. Allora finii le bozze che stavo controllando il giorno prima e poi andai a mettermi vicino alla finestra, aspettando.

Lei giaceva perfettamente immobile sotto la coperta, una mano sul petto, l’altra allungata al fianco, le guance pallide come il marmo. Dopo un tempo che mi sembrò lunghissimo, si alzò a sedere, a ginocchia alte, il copriletto che ricadeva come una crinolina, e si prese il viso fra le mani.

— Che cosa c’è? — chiesi. — Che cosa hai sognato?

Mi guardò e tentò di parlare, e gli occhi le si riempirono di lacrime.

— Era Appomattox? — chiesi.

Fece cenno di sì, guardando fisso davanti a sé, le lacrime che iniziavano a scendere, e non dovette dirmi che cosa aveva sognato. Lo sapevo già.

Si incontrarono nel soggiorno della casa di Mc Lean, nel primo pomeriggio. Grant disse a Lee di averlo già visto, in Messico, e di aver sempre desiderato conoscerlo. Si scusò per essere in uniforme da campo e con gli stivali infangati. Lui e Lee discussero le condizioni della resa, e Grant fece del suo meglio per “lasciarli andar via bene”, come gli aveva raccomandato Lincoln.

Lee disse a Grant che nell’esercito confederato le unità di cavalleria e di artiglieria utilizzavano cavalli di proprietà personale e chiese che fosse loro consentito di conservarli, dato che la maggior parte degli uomini era costituita da piccoli agricoltori che ne avrebbero avuto bisogno per le semine di primavera. Furono presi accordi perché l’esercito di Lee si avvalesse delle provviste alimentari dell’Unione. I termini della resa furono scritti e firmati.

Quando fu tutto finito, Lee uscì dalla casa e rimase in piedi accanto a Traveller, mentre l’aiutante sistemava le briglie. Lee stesso fece scivolare il morso al suo posto e poi rimase ad accarezzare, senza vederla, la nobile fronte grigia. Quindi montò sul cavallo che l’aveva portato “da Fredericksburg, l’ultimo giorno a Chancellorsville, a Pennsylvania, a Gettysburg e poi ancora a Rappahannock” e tornò verso il frutteto per dire tutto ai suoi uomini. “Uomini, abbiamo combattuto insieme per tutta questa guerra, e io ho fatto tutto ciò che ho potuto”.

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