Non sapeva perché l’avessero mandata. Sicuramente una delle altre sarebbe stata migliore per quel compito. Già sapevano dove erano le renne e come potevano essere trattate; perché scegliere lei, una straniera? Glielo chiese.
— La tua dote — dissero — le renne saranno la tua dote. — Non riusciva a ricordare perché dovesse avere, o perfino cosa fosse, una dote. C’era un senso di urgenza in tutto ciò, tuttavia, qualcosa che non si poteva limitare a ignorare. Urgenza e inevitabilità. Doveva essere fatto.
In qualche modo, aveva perso i suoi vestiti; le prestarono stivali, una veste pesante di trapunta e un cappello con i paraorecchie che si annodavano sotto il mento. Sotto la veste era nuda. Poteva sentire freddo all’inguine, il vento che sibilava tra le sue gambe. Non avrebbe avuto così freddo se fosse riuscita a tenere unite le gambe, ma non poteva farlo. Qualcosa glielo impediva.
Era meglio ignorare semplicemente il freddo che provava all’inguine e uscire nella neve. Qualcuno le aveva indicato la strada che doveva compiere, là fuori, dove la valle tra le colline si apriva e gli alberi si stagliavano scuri contro il manto di neve. Qualcun altro le aveva mostrato le tracce lasciate dalle renne, peste vagamente triangolari…
— Potrebbe morire — disse una donna.
Chiunque stesse parlando le legò la benda più strettamente intorno al capo e le asciugò il sangue dal viso. Stavia la ignorò.
— Non avresti dovuto colpirla — disse la stessa voce.
— Stava cercando di scappare — la voce di un ragazzo questa volta, giovane; incerta ma piena di sfida.
— Di che utilità potebbe essere con la testa spaccata? — chiese la donna. — Cosa pensavi di fare? Ucciderla e poi fare il tuo dovere sul suo corpo senza testa?
Il suono di uno schiaffo e un urlo.
— Bada a come parli, donna, hai offeso tuo figlio — la voce di un uomo, grave, pesante con una venatura lubrica e inflessibile.
Stavia decise di aver ascoltato a sufficienza. Era tempo di andare a cercare le renne. La pista conduceva tra gli alberi, nella foresta, dove il vento sibilava tra i rami e tutte le voci erano svanite. Persino nel buio riusciva a vedere le tracce. Risaltavano come piccoli cuori tra le ombre. Le seguì.
— La guarirai, Susannah — disse la voce dell’uomo.
— Farò quello che potrò — c’era una sorta di dignità testarda.
— La guarirai.
— Marito, farò quello che potrò; non ho qualità magiche per curare ferite come quella. Forse le avrei se le avessi lasciato il tempo di insegnami alcune delle cose che sa. Ci sono degli oggetti nella sua borsa della medicina ma io non so cosa siano. Capacità è abile a tagliare la legna. E anche le teste; devi rendertene conto, Risoluzione Brome. Avrebbe potuto ucciderla.
— Quel demonio.
— Non mi sembra un demonio — gli rispose con la stessa perversa integrità, con le lacrime agli occhi. Stavia voleva ridere ma non poteva. — Sembra come qualsiasi donna che ha subito un forte maltrattamento. Come ogni altra moglie. Picchiata, rasata e affamata.
Un nuovo schiaffo. Un nuovo pianto; non era un suono che la sorprendesse, sembrava più un rito. Schiaffo, lamento, schiaffo, lamento. L’uno seguiva l’altro come un’ammissione.
— La curerai — era un comando. C’era una promessa di dolore dentro di esso.
Silenzio. Poi: — Farò ciò che potrò con quello che ho qui. Devo prendere alcune cose dalla mia Casa delle Mogli. — Alcune nuove emozioni vibravano in quella affermazione; più di quanto le parole lasciassero intuire; una tristezza definitiva; un senso di finalità. Chiunque fosse la donna, se ne andò a una distanza maggiore di quella che permettesse di seguirla.
Non erano problemi di Stavia. Stavia continuò a seguire le tracce. Conducevano a un sentiero lungo e ventoso tra gli alberi; davanti a lei c’era la luce della luna che veniva da qualche parte. Non c’era cielo. La terra forse. Luce che veniva dalla neve stessa. E c’erano le renne, con le corna contorte come rami di un albero, immobili come statue grigie, o come se fossero state intagliate nella pietra. Solo il loro respiro testimoniava che erano vive, piccoli sbuffi di vapore che uscivano dai loro musi neri, all’infinito. Tutto quello che doveva fare era offrire loro del grano che portava nella mano sinistra e portarle via.
Il muggito venne dalle sue spalle. Si volse accorgendosi di colpo di quale fosse l’origine della luce e del motivo per cui le renne stavano là. Non erano scappate. Erano state rubate e portate là da Lui. Le sue corna puntavano avanti e indietro come il bordo di un’onda frastagliata, dividendosi in dozzine di piccole punte di osso bianco. Sulla sua fronte si protendevano altre punte, brillanti dita d’avorio. Il suo muso puntava in avanti quasi per chiamarla, dicendole perché era là. Le renne gli appartenevano. Ora che era arrivata, anche lei era una sua proprietà. Non avrebbe potuto tornare indietro. La pelliccia bianca intorno alle sue spalle e intorno al petto era un abito reale, per rendere evidente la sua regale presenza.
— Va’ a cercare quella pazza — disse la voce pesante dell’ uomo. — È stata fuori abbastanza da cuocere un pasto. Castità, va’ a cercarla.
— Sì, papà — una ragazzina. C’era una ragazza, là, da qualche parte.
Non era importante.
Il grande animale muggì nuovamente: — Mia — disse — mia.
— Ho bisogno di loro — disse lei in tono ragionevole; — non vedi che ne ho bisogno?
— Mie — abbassò le corna, puntavano verso il petto e la testa di lei. Raschiò con uno zoccolo, cercando un appoggio solido dal quale lanciarsi all’attacco. — Sono mie.
— Non ti servono neppure a nulla — disse lei. — Ti limiti a possederle; se hanno dei cuccioli maschi li combatti e li uccidi. Dici che sono tue ma non ti sono di alcuna utilità.
— Mie — ripeté ancora.
Tornò a farsi udire la voce della ragazzina, spaventanta. — Papà, papà, è morta. La mamma è morta.
— Cosa vuol dire morta?
— È appesa alla trave, papà. A una corda. Non posso tirarla giù…
Confusione. Stavia la ignorò. Aveva il coltello nella mano destra. Sulla spalla teneva una corda. — Non me le lascerai prendere? — chiese al maschio del branco — ne ho bisogno. E, cosa ancora più importante, loro stesse ne hanno bisogno; hanno dei nomi sai. Nomi propri.
— Mie — tuonò lui. — Mio il potere. Mia la gloria. Mie le femmine? Miei i giovani.
Lei lanciò la corda. Essa si mosse come se potesse decidere il suo tragitto nel vuoto, un serpente che sapeva dove andare, agganciandosi intorno alle possenti corna e intorno a un albero, come se avesse avuto uno scopo. La ragazza agì velocemente mentre l’animale urlava e si agitava. Poi, come per miracolo, comparve un’altra corda nella sua mano per tenere legate assieme le altre due gambe dell’animale assicurandolo a un altro albero. Aveva un pugnale; era pronto nella sua mano e lei si mosse verso quella belva che sapeva di muschio con i muscoli guizzanti, lanciandosi contro di lui, tagliando con il coltello, lasciando che brandelli del mostro cadessero sul terreno mentre il grande maschio urlava, e lei diceva… qualcosa. Cosa aveva detto? Una battuta di una commedia. Qualcosa che riguardava il pianto…
Quando ebbe terminato, portò le renne per la strada da cui era venuta? Dietro di lei, la corda magica si allentò e l’animale fuggì via. Non poté più sentirlo. Non ci furono muggiti ma solo il sottile respiro delle renne dietro di lei, la luce che si rifletteva dai loro occhi mentre la guardavano, il vapore che saliva dai loro musi. — L’ho fatto anche per voi — disse.
— Le ho portate — disse quando tornò nel punto dove c’erano le persone. — Guardatele, eccole qui. Ci sono tutte.
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