( Achille tenta di afferrarla ma scopre di non poterla trattenere )
ACHILLE: Mi è scivolata dalle mani, come un raggio di sole, come la luce della luna, come la nebbia, come…
IFIGENIA: Come uno spettro.
ACHILLE: Come uno spettro, sì.
POLISSENA: ( Compiaciuta ) In qualche modo non ne sono sorpresa.
ACHILLE: Come posso costringerla all’obbedienza? In altri momenti ho usato la paura della morte per costringere una donna a inchinarsi davanti a me. Se non la paura della sua stessa morte, almeno quella di qualcun altro, il marito o il figlio. Come posso piegare questa donna alla mia volontà?
POLISSENA: Credo che non mi piegherò.
IFIGENIA: Vedi, è quello che tutte noi abbiamo cercato di spiegarti, o grande Achille; le donne non sono di alcuna utilità per voi morti.
Dopo aver lasciato Septemius, Chernon aveva abbandonato la pianura raggiungendo un’altura di moderate dimensioni, dove si era accampato, trascorrendovi una notte virtualmente insonne e aveva acceso un piccolo fuoco all’alba. Stavia si era alzata presto, aveva cercato il fumo e, quando Chernon aveva spento il fuoco — cosa che aveva fatto dopo pochissimo tempo — si trovava già fuori dal cancello a nord del campo fortificato. Tutto stava procedendo esattamente secondo il piano. La ragazza si mise in viaggio verso di lui con una sensazione di fatalistica attesa, non precisamente felice, ma con più soddisfazione di quanta ne avesse provata da qualche tempo, visto che la sensazione di essere in colpa nei suoi confronti diminuiva.
Le occorsero diverse ore per raggiungerlo. Sebbene lui si tenesse ben nascosto nella foresta come lei gli aveva racomandato, la osservava dalla cima di un’alta cresta di roccia, più impaziente ed eccitato a ogni momento che passava.
Quando Stavia arrivò si accorse di non aver parole con cui salutarla. Le sue fantasie lo avevano tenuto sveglio per la maggior parte della notte, il suo corpo in perenne agitazione aveva fatto il resto. La prese tra le braccia mentre ancora si stava avvicinando al campo, strappandola dal mulo e trascinandola verso le coperte adagiate sul terreno, coprendole la bocca con la sua in modo da impedirle di parlare. Non le diede tempo, né possibilità di far nulla, travolgendola con una frenetica smania che, seppure non la sorprese completamente, la lasciò, quando il ragazzo scivolò via da lei, completamente inappagata e tremante in uno stato di dolore e rabbia. Il ragazzo si era rincantucciato tra le coperte, con gli occhi chiusi, il respiro pesante. Se non era stato esattamente uno stupro ci era andato molto vicino.
Stavia raccolse i suoi vestiti e si alzò, scivolando via da lui come avrebbe fatto con qualsiasi animale domestico che improvvisamente diventa pericoloso. Chernon si era addormentato profondamente e lei si ritirò ancora di più nel bosco dove il suo animale da soma aspettava pazientemente con le redini appoggiate sul dorso. Scaricò il bagaglio, impastoiò l’animale a un albero, cercò fino a trovare un rigagnolo di acqua in fondo a un canalone boscoso, poi si spogliò per lavarsi. Versò l’acqua sul suo corpo con le mani a coppa più e più volte, eseguendo l’operazione in maniera molto silenziosa e cercando di impedirsi di urlare o di tornare al punto dove Chernon stava dormendo e di ucciderlo. C’era del sangue sulle sue cosce ma quello se lo era aspettato. Da quell’incontro aveva ottenuto più dolore che piacere, ma sapeva che non era una cosa inusuale. Aveva iniziato a studiare materie femminili a dieci anni, aveva frequentato corsi di piscologia e pratiche sessuali, alla sua età la maggior parte delle sue coetanee aveva già avuto esperienze sessuali ma non era meno preparata di quanto lo fossero state loro. Chernon non le aveva dato semplicemente tempo o possibilità di far nulla o essere nient’altro che un ricettacolo della sua impaziente passione. Non era spaventata o ferita, ma furiosa.
Non le aveva detto una parola! Neanche una frase amorosa, neanche un accenno di sentimento. Nessun corteggiamento; l’aveva presa come se fosse stata una delle ragazze del campo degli zingari.
— Avresti dovuto fermarlo — osservò l’attrice Stavia da un oscuro e profondo recesso della sua mente. — Avresti dovuto respingerlo, Stavia.
— Non è il fatto di fermarlo che conta. Volevo qualcos’altro da lui, non da me. — Non era quella la vera ragione. No, cercò ancora di trovare delle giustificazioni. — Ero così sorpresa che non ruscivo a pensare a cosa fare, ed era già tutto finito. — E poi: — Non era quello che pensavo che volesse.
— Meglio che lasci fare a me.
— Va bene — Di sicuro non poteva cavarsela da sola. Lo avrebbe ucciso se avesse potuto. Meglio lasciare che se ne occupasse l’attrice Stavia.
Si rimise i vestiti, allacciandoli stretti, tornò al fuoco dove lo aveva incontrato e gli sferrò un violento calcio alle costole.
Lui si destò con un gemito, sbarrando gli occhi.
— Se lo fai un’altra volta — gli disse — sarà l’ultima volta che mi vedrai.
— Fare… — borbottò lui, mettendola lentamente a fuoco — fare… che cosa ti aspetti che faccia?
— Mi aspetto che tu ti comporti da persona civile. Non mi aspetto di venire assalita. È questo il genere di comportamento che viene considerato onorevole nella guarnigione?
Lui non poteva risponderle. “Certo che sì. Non lo era nel Paese delle Donne ma nella guarnigione, naturale che era una cosa onorevole. Con… con… certi tipi di donne. Donne che lasciano la città per te…”
Lei si accorse dello sguardo con cui lui la stava osservando, di sottecchi con fugaci occhiate lubriche. — Così, Chernon — domandò l’attice Stavia — è questa la tua idea di fare l’amore?
Lui arrossì. Forse. Un poco. Era proprio quella.
— E ti aspetti che a me piaccia? Che l’accetti?
Lui scosse il capo, cercando una risposta accettabile, ricordandosi troppo tardi che era stato inviato per sottrarle con l’inganno delle informazioni. — Non ci ho pensato. Io… Io ti ho aspettato per settimane. Continuavo… continuavo a pensare a te. Non potevo… non potevo aspettare, questo è tutto. — Arrossì nuovamente poi si alzò. — Mi spiace, Stavia. Non ero… non ero in me, immagino.
— Possiamo chiarire alcune cose?
Lui assentì, dando un’artefatta immagine di sicurezza mentre in realtà cominciava a sentirsi offeso. Chiederle scusa una volta avrebbe dovuto essere sufficiente. Lei avrebbe potuto sorvolare. Non era una cosa su cui tornare.
— Noi dovremmo essere compagni di viaggio in questa spedizione. Ho accettato questa cosa almeno parzialmente perché ti avevo offeso quando eravamo bambini. Be’, quando io ero una bambina — quanti anni avevo? Dieci, undici? — abbiamo deciso di intraprendere questa specie di avventura. Per appagare in qualche modo le fantasie di entrambi. Giusto?
Lui assentì; naturalmente era quello che si erano detti, soprattutto quello che lui aveva detto; pensava che se lo fosse dimenticato?
— Non sono una ragazza che hai sedotto e portato al campo degli zingari per il tuo piacere. Il piacere dovrebbe essere reciproco. Questo significa che ognuno di noi deve fare qualcosa per procurarne all’altro e deve preoccuparsi dei suoi sentimenti.
Lui non riusciva a immaginare nessuna risposta opportuna; certe cose di quell’incontro lo avevano colpito e lui stava ancora cercando di capire cosa fare.
Dopo un poco lei disse: — Ho fame — affermò con una voce neutra che nascondeva una leggera nausea. Prese le provviste necessarie sul carico del mulo e cominciò a preparare un pasto a base di pane e formaggio accendendo un piccolo fuoco senza fumo per scaldare l’acqua per il tè. — Sono partita molto presto — continuò, sempre con voce impersonale e priva di tono — prima di colazione.
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