Sheri Tepper - Cronache del dopoguerra

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Cronache del dopoguerra: краткое содержание, описание и аннотация

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Sono passati duecento anni dall’ultimo olocausto ma il dopoguerra dura ancora. Una parte del genere umano (le donne di Marthatown e di altri centri abitati pacifisti) hanno imparato la lezione e giurato di non riprendere più le armi, ma altri la pensano diversamente. Per molti fare la guerra è sinonimo di onore, di uno stile di vita eroico e irrinunciabile. Così, in alcuni avamposti militari disseminati sul pianeta attecchisce una civiltà aggressiva che si identifica con uomini non disposti a fare ammenda del passato. Per Stavia, una giovane dottoressa, non è facile convincere il compagno Chernon a rinunciare alla via della violenza, tanto più che i due devono compiere insieme una missione che non si prospetta facile. Presto dovranno misurarsi entrambi con mille difficoltà e pericoli, e allora non sarà Chernon il solo a dover fare una scelta radicale: anche Stavia si renderà conto che l’utopia potrebbe avere i giorni contati.

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Il vecchio Bowough disse: — Un ottimo tè, signora. È stato molto gentile suggerirlo.

— È stato gentile da parte vostra offrirlo — disse Stavia osservandolo meglio. Il tè aveva ridato colore al suo viso e lucentezza ai suoi occhi. Era più vecchio di quello che aveva giudicato in un primo momento. Forse aveva novant’anni. Una veneranda età per un uomo in quel tempo, tuttavia non le piaceva il suono crepitante del suo respiro. Lo stesso Septemius sembrava aver superato già da un pezzo i cinquanta, anche se era ancora forte e atletico quando si muoveva; la madre delle ragazze doveva essere stata molto più giovane. Si rese conto che le stava osservando fissamente. — Cercavo una rassomiglianza tra di voi — mormorò quasi tra sé. — Le ragazze non ti somigliano molto, Septemius.

L’uomo scosse il capo. — La loro madre non era mia parente. Era una bambina adottata da mia madre, la figlia di una vecchia amica. Siamo cresciuti insieme. Si sposò tardi (sai cosa significa sposarsi?) e morì durante il parto.

— Sì, ho sentito parlare di questa abitudine — disse, stando ben attenta a non dimostrare che considerava il matrimonio una pratica barbara. — Avreste dovuto portarla al Paese delle Donne — mormorò Stavia, sconvolta all’idea che una donna potesse morire di parto.

— Lo zio Septemius lo avrebbe fatto — disse Kostia.

— Ha molta stima delle vostre scienze — disse Tonia.

— Ma nostro padre non lo avrebbe permesso.

— Allora è stato un pazzo — esclamò Stavia, colpita.

Calò allora un penoso silenzio, interrotto stranamente proprio da Bowouhg. — Era un pazzo, sì; noi vagabondi abbiamo un detto: “ Se son faccende da uomini decida il capocomico, se son cose da donne, decida il Paese delle Donne. Se son cose da pazzi, decidano i guerrieri”.

— Era un guerriero? — il viso di Stavia era improvvisamente diventato pallido.

Septemius assentì. — Uno tra i più decorati. Aveva ricevuto molti onori. Si era ritirato, almeno così diceva, dal servizio attivo, si era ritirato dalla guarnigione. Gli era permesso di viaggiare, se voleva.

— Ho sentito che a volte alcuni guerrieri possono viaggiare — disse Stavia con un’espressione stranamente furtiva — ma non si ritirano mai dal servizio attivo. Non lo fanno neppure quando vanno alla casa dei Vecchi Guerrieri.

— Lo credo anch’io — disse Septemius. — Tu lo sai, e anche le mie nipoti lo sanno e ne sono convinte, ma mia sorella… lei non voleva crederci. — Accorgendosi dello sguardo con cui l’osservava Stavia, cambiò argomento. Le sue nipoti avevano ragione; c’era qualcosa che rodeva quella ragazza e si trattava di qualcosa di più del dubbio che un giovane guerriero venisse a un appuntamento romantico.

Il giorno seguente, portarono il carro alla piazza e montarono il palcoscenico sotto lo sguardo interessato delle guardiane della piazza, dopo di che tornarono all’ostello a portare i muli. Bowough sembrava migliorare grazie al riposo e alle razioni supplementari di cibo. Il cuoco all’ostello gli aveva preparato il suo zabaione e il vecchio ne aveva tratto giovamento. Tutti loro l’avevano assaggiato. A Septemius era sembrato che ci mancasse qualcosa. Era ciò che mancava sempre, qualche misteriosa dimensione del gusto che la sua immaginazione riusciva a evocare ma che la lingua e il naso non riuscivano a percepire, qualche spezia o condimento che non esisteva più. In quel caso si trattava della vaniglia, come spiegò loro il cuoco riferendosi alle antiche ricette. — Era un prodotto tropicale, senza dubbio — commentò Stavia con un sospiro. — In quest’epoca non otteniamo niente dai paesi tropicali.

— Vuol dire che sono stati tutti distrutti? — chiese Kostia, incuriosita dall’insistenza di Septemius per la mancanza di spezie e condimenti.

— Chi lo sa? — replicò Septemius, moderando in qualche modo il suo tono di voce. — Non possiamo raggiungerli, non sappiamo se i loro abitanti sono morti e loro non sanno di noi. Chi può dire se esistano ancora?

— Non hai mai cercato di andarci? — chiese Tonia. — Qualcuno ci ha mai provato?

— A sud? Mi ricordo di un viaggio, molto tempo fa, quando ero giovane; la troupe si spostò lungo la costa, piegando verso l’interno per evitare una grande devastazione lungo il mare. Mio nonno aveva sentito delle voci di terre disabitate che non facevano parte del Paese delle Donne. — Non aggiunse altro riguardo alle terre disabitate. Non erano luoghi dove avrebbe voluto tornare e non desiderava neppure che Kostia e Tonia ci andassero, neppure per salvare le proprie vite. — Il nostro viaggio verso sud terminò in un luogo dove si riunivano tre mostruose devastazioni, una pianura di vetro vicino a una grande baia dove c’erano le rovine accartocciate di un ponte costruito sulla pietra. Non riuscimmo a trovare una strada per raggirarlo.

— Forse andando più verso l’interno — mormorò Kostia.

— Forse, se avessi una barca — mormorò Tonia.

— Sì, forse — disse lui — ma è stato un quarto di secolo fa. Sta venendo il tempo in cui è opportuno che il Paese delle Donne mandi una squadra di esplorazione. Lo fanno di tanto in tanto per vedere quali cambiamenti sono avvenuti con il tempo. Forse troveranno di nuovo le spezie.

— Non ne sentiamo la mancanza — disse Kostia.

— Perché non le abbiamo mai assaggiate — disse Tonia — erano cose da poco, dopotutto.

— Una piccola spezia può avere più valore di generazioni di patate — borbottò Septemius Bird — nessuno di noi le ha mai assaggiate. Ma alcuni di noi le rimpiangono ugualmente.

18

Le prove:

CASSANDRA: ( Piangendo ) Apollo mi ha detto che non mi avresti creduta.

ECUBA: ( Coccolandola ) Be’, Apollo può andarsi a grattare, naturalmente che una madre crede alla sua bambina…

ANDROMACA: Cassandra? Che differenza farebbe se ti credessero? Forse è meglio se nessuno di noi vede sangue e ossa fracassate.

CASSANDRA: Non capisco.

ANDROMACA: Be’, allora smetti di piangere e spiegami cosa hai visto.

CASSANDRA: Io sono Cassandra. Essere Cassandra significa fare profezie. Ma se non mi ascoltano quando parlo, allora cosa sono se non una piccola cosa senza carne, un fantasma che nessuno vede?

ECUBA: Shh, figliola. Non sei una persona meno di quanto lo sia Andromaca. Non meno di me. Almeno il nome Cassandra ti appartiene. Una volta mi chiamavano la regina di Priamo. Ma, morto Priamo, non vi è più una regina. Andromaca era la moglie di Ettore ma, morto Ettore, che moglie può essere? Il nostro posto era qui nella rocca di Troia dalle molte torri, quando essa è caduta, in quale luogo possiamo stare? Noi tutte stavamo qui, sorrette dalla forza dei nostri guerrieri, ma essi sono morti, così, quale luogo ci resta? La città è sparita, la forza è svanita, oggi noi non siamo nulla. Almeno il nome Cassandra ha un significato di per se stesso.

CASSANDRA: ( Pensierosa ) Ci son cose peggiori che avere il proprio nome.

19

Dopo nove anni di assenza trascorsi all’Istituto di Abbyville, Stavia aveva faticato a ritrovare il suo vecchio posto nella casa di Morgot e a pensare a essa come alla sua casa. L’idea di “casa” le ricordava la stanza che aveva occupato all’Istituto, poco più di uno sgabuzzino, eppure un posto che per lei era molto personale, dove poteva tenere tutte le sue cose. Una volta ritornata a Marthatown, nella stanza che aveva occupato sin da bambina, la vedeva con occhi nuovi, come uno spazio ristretto, occupato da altri e per giunta pieno di troppe cose. C’erano, qua è là, brandelli della persona che era stata un tempo. Forse erano parti di sé che dubitava esistessero ancora o cose che altri avevano attribuito a lei. Libri che non desiderava più. Giocattoli con i quali non rammentava neppure di aver giocato. Suppellettili e stranezze che erano sempre state là e che forse appartenevano a persone che neppure conosceva. Dopo una o due settimane di disagio, durante le quali si era aggirata costantemente come un cagnolino alla ricerca di un posto dove acquattarsi, chiese al servitore che aveva preso il posto di Donal di trovare alcune ceste e di portarle nella sua stanza.

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