Fino a quel momento, gli era sembrato più saggio non tentare la sorte, più saggio servirsi del fascino e sfuggire qualunque permanenza gli venisse suggerita, mantenendo la sua libertà, in caso le cose fossero cambiate. Gli sembrava folle tentare di ottenere delle certezze. — Per cinque — si diceva sempre. — Non cedere alle loro blandizie, Septemius.
Guidò il carro dal mercato al crogiuolo di vicoli che si estendeva a oriente dalla piazza verso l’ostello che ricordava costruito intorno a un grande campo, con ampie stalle per gli animali. Guidava silenziosamente, grattandosi sulla guancia dove l’inchiostro si stava seccando provocandogli un certo prurito, perduto in vecchi ricordi.
— Era molto sofferente per qualcosa — disse Kostia. — Tonia e io lo abbiamo avvertito.
— Di chi parlate, ragazze? — Aveva perso il filo dei ricordi più recenti. Chi? Non sua sorella, la mamma o la nonna? No. — La dottoressa? E perché mai una bella ragazza come quella dovrebbe soffrire? Quanti anni aveva, venti? Ventidue?
— Circa — affermò Kostia — c’è un uomo nei suoi pensieri, Septemius. Un guerriero.
— Oh, per la Signora delle città. Si preoccupa che non venga a un appuntamento, forse? — Septemius sapeva che c’era di più. Voleva solo trovare un conferma alle sue stesse percezioni.
— Più di questo — disse Kostia. — Qualcosa di interessante, Septemius. Qualcosa di molto interessante. Una cosa molto complessa e intricata, come un arazzo dove le figure sono solo abbozzate…
Le lanciò uno sguardo interrogativo ma non proseguì il discorso. Kostia e Tonia trovavano molte cose interessanti e di certo lo avrebbero illuminato quando fosse stato il momento propizio. Per quanto lo riguardava passava molto del suo tempo cercando di non pensare a loro come se fossero Octobra, ritornata, cercando di non pensare che le assomigliavano come fossero state le sue gemelle. Lo erano gemelle, ricordava; pregava di aver eretto un’isola abbastanza forte per permettere loro di viverci sopra o nelle vicinanze, senza sentirsi mai dei relitti guidati da gorghi imprevedibili. Se era così, aveva compiuto quello che considerava il suo dovere. Tutto quello che Octy gli avrebbe chiesto se avesse potuto vivere a sufficienza da poter chiedere.
All’ostello gli fu indicato un posto per i muli nella stalla e due camere comunicanti per la famiglia, pagando una settimana anticipata perché sapeva che in quel modo sarebbe stato meno facile che si dovessero spostare per far posto a qualcun altro quando la città si fosse riempita. I cani, dopo un periodo in cui furono liberi di andare in giro ad annusare, li seguirono docilmente mentre portavano di sopra il bagaglio, o almeno quella parte di esso che era irrinunciabile o sufficientemente leggero per essere trasportato. Il Paese delle Donne era famoso per la sua onestà, ma durante il periodo del carnevale era frequentato da altre persone che erano regredite ad altri sistemi etici.
Le stanze si trovavano al secondo piano, una di esse era situata in un angolo dell’ostello e si affacciava sulla strada. Aveva una caldaia, due letti stretti e un ampio tavolo illuminato da una lampada. Septemius grugnì e depose la sua borsa con un sospiro sul tavolo, prendendone possesso. Il vecchio Bowough si lasciò cadere sul letto più vicino con un sospiro e si addormentò in pochi secondi, mentre a ogni lato del suo giaciglio prendeva posizione uno dei cani bianchi. Septemius rimase a osservarlo, con il viso solcato da linee verticali come il muro di una gola. — Per lui diventa ogni giorno più dura — disse senza rivolgersi a nessuno in particolare.
— Dovremmo fermarci per un poco — disse Tonia. — La ragazza medico alla casa di quarantena ha ragione, Septemius. — La nipote accese una candela e gironzolò tra le porte comunicanti, approvando la pulizia del posto, i muri ricoperti di pannelli di legno, il grande letto a baldacchino, il crogiolo pulito davanti alla stufa nella quale era già acceso un piccolo fuoco. Gli altri tre cani, quelli grigi, giravano in circolo intorno al crogiolo con le orecchie nere e i musi alla ricerca di odori adeguati, con le code che si agitavano ritte sulla schiena mentre cercavano di accordarsi sullo spazio a loro destinato e su chi avrebbe avuto la precedenza a stare davanti alla stufa.
Kostia saltò sul letto un paio di volte, poi cominciò ad appendere i suoi vestiti nell’armadio, prendendo, come sua abitudine, il cassetto sinistro e una serie di grucce. — Dovremmo stabilirci da qualche parte.
— Vorresti fermarti? — le chiese lui dalla soglia, esaminando a sua volta la stanza, cercando di chiudere gli scuri, la maniglia della porta, con gli occhi luminosi come frammenti di vetro tagliente, affilati come aghi, umidi di lacrime trattenute. I ricordi gli facevano quell’effetto, a volte. — Vorresti veramente?
— Forse non ancora — rise Kostia. — Tuttavia dovremmo farlo se nonno Bowough ne avesse bisogno. — Prese una candela e raggiunse la porta, scivolando lungo il muro per individuare i gabinetti — piccole stanzette individuali con toilette composte da vari sanitari come in uso nel Paese delle Donne — e la doccia con il suo grande e capace scaldabagno. Tornò indietro soddisfatta. I bagni erano puliti e ben tenuti come le stanze.
— Potremmo costruire un casetta nel quartiere degli itineranti, fuori dalle mura — scherzò Septemius — per il vecchio e per me. Senza dubbio voi due verreste accettate all’interno delle mura. Le loro stesse cittadine vanno a scuola sino a un’età molto superiore alla vostra. Potreste frequentare le scuole del Paese delle Donne. Non ci sono dubbi sul lavoro che potreste fare.
— Forse non ancora — ripeté Tonia con buona grazia. — Ricordi, zio, tu sei storico di professione. Ci sono ancora delle cose che dobbiamo imparare fuori dalle mura.
Era una loro abitudine quella di assegnargli una professione anche se non era mai stato che un vagabondo; le sue nipoti lo dipingevano in modo migliore di quello che era in realtà, abbigliandolo con i vestiti del professore, come le donne dell’Istituto di Abbyville, dicendo che era uno storico anche se non era altro che un vagabondo che aveva visto ciò che era rimasto del mondo. E lui aveva visto tutto, molte volte. Le imponenti foreste a nordovest, verdi di felci e umide di nebbia, misteriose e meravigliose come una pericolosa terra delle fate, le coste rocciose sulle quali s’infrangevano le onde durante le tempeste, le terre dei contadini dell’interno, colline o pianure, con i campi che giacevano squadrati e pieni di grano o campi di lino così azzurri da sembrare un riflesso del cielo. E le città che sorgevano tutt’attorno, le città del Paese delle Donne. Simili e allo stesso tempo differenti come lo sono i cani tra di loro. Quel posto, Marthatown, aveva il suo odore particolare, in parte era la nebbia del mare, in parte il fumo dei forni dove veniva messo a cuocere il pesce, in parte l’usta delle pecore e della lana delle concerie. Aveva il suo particolare odore che la rendeva diversa da tutte le altre città.
Ma non era poi differente dalle altre. Tutte avevano magazzini dove venivano stivati il cibo dai campi e dalle greggi comuni, il cui ricavato veniva diviso un tanto per ogni famiglia, un tanto per la guarnigione, un tanto destinato al commercio con le altre città. A Marthatown raccoglievano lana e pellame, grano e pesce secco e alcune radici. A Susantown raccoglievano mele secche e carne affumicata, fibra e olio di lino. Su a Tabithatown raccoglievano funghi secchi e tagliavano il legname. La città puzzava sempre di polvere e truccioli e risuonava del rumore delle seghe azionate dal mulino ad acqua. Tutte le città avevano una zona riservata al mercato piena di piccoli negozi e bancherelle. E tutte avevano dei vicoli di artigiani dove vivevano le tessitrici, le fabbricanti di candele e le pescatrici. Ogni città aveva i suoi negozi di candele, di erboristeria e centri di reclamo, strade allineate con piazze, case e cortili dove le nonne vivevano con figlie e nipoti, bambini e servitori.
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