Sheri Tepper - Cronache del dopoguerra

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Cronache del dopoguerra: краткое содержание, описание и аннотация

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Sono passati duecento anni dall’ultimo olocausto ma il dopoguerra dura ancora. Una parte del genere umano (le donne di Marthatown e di altri centri abitati pacifisti) hanno imparato la lezione e giurato di non riprendere più le armi, ma altri la pensano diversamente. Per molti fare la guerra è sinonimo di onore, di uno stile di vita eroico e irrinunciabile. Così, in alcuni avamposti militari disseminati sul pianeta attecchisce una civiltà aggressiva che si identifica con uomini non disposti a fare ammenda del passato. Per Stavia, una giovane dottoressa, non è facile convincere il compagno Chernon a rinunciare alla via della violenza, tanto più che i due devono compiere insieme una missione che non si prospetta facile. Presto dovranno misurarsi entrambi con mille difficoltà e pericoli, e allora non sarà Chernon il solo a dover fare una scelta radicale: anche Stavia si renderà conto che l’utopia potrebbe avere i giorni contati.

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L’uomo s’inchinò nuovamente, questa volta con sincerità, e lei lo scimmiottò ridendo. — Dove farai il tuo spettacolo, mago?

— Visto che sono arrivato così presto, potrò assicurarmi un posto in piazza? — La domanda fu accompagnata da una strizzata d’occhio e da un palpitare di narici.

— Sei tra i primi — annuì lei. — Domani avrò terminato e verrò a dare un’occhiata al vostro amico. Siete insieme da molto?

— Qualcuno potrebbe dire di sì; è mio padre.

La ragazza porse ai componenti del gruppo le carte per ottenere le razioni e rimase a guardarli mentre se ne andavano sul carro scricchiolante sulla strada lastricata, risalendola verso la piazza del mercato.

Septemius, sul sedile del carro, teneva le redini nella mano sinistra e posò la mano destra sul sedile, in equilibrio sulle punte delle dita, ciascuna delle quali trovava una piccola depressione. — Cinque — borbottò tra sé, premendo le dita mentre la sua agile mano compiva cinque veloci flessioni sul sedile. Cinque era il numero magico di Septemius, la sua chiave segreta. Da bambino aveva avuto un lenzuolo con cinque api ricamate. Le dita della sua mano si erano adattate alla posizione di quelle cinque api come un guanto aperto. Da ragazzo aveva scelto il cinque come numero guida; da uomo, aveva confermato la sua scelta. A volte si burlava di se stesso, negandolo, ma al tempo stesso cercava una configurazione di stelle o buchi nel muro o alberi che crescevano nella boscaglia che si adattassero a quello schema. Cinque, contare sempre allo stesso modo: uno-due, uno-due-tre. Tip-tap, tip-tap-tap; se il suo schema veniva seguito da un altro tip-tap era un segnale molto particolare, di sette sillabe, che riproponeva il suo nome. Aveva scoperto che “sept” significava sette in una lingua antica. Cinque e sette erano i suoi numeri magici, che vedeva nei presagi e nelle preghiere.

Non aveva mai parlato a nessuno di ciò. Quando ci pensava tra sé, tutto ciò gli appariva sciocco, infantile, un tentativo di attribuire un ordine a un mondo che ne era quasi privo. Septemius era arrivato a credere che non vi fosse ordine, perfino quando sembrava esservene.

Era stato l’unico bambino nella sua troupe. Questa era composta da Bowough, suo padre, e Genetta, sua madre, poi c’erano Old Brack e Old Brick, i genitori di Bouwough, la zia Ambiose, lo zio Chapper e il cugino Bysell e la zia Netta, che non era esattamente una zia e i suoi figli e figlie, cinque in tutto, tutti già grandi. Tutti loro erano addestratori di animali, maghi, acrobati, o lanciatori di coltelli o qualsiasi cosa d’altro scegliessero di essere in quel momento. Tutti loro possedevano una forte volontà. Era impossibile trovarne due che andassero d’accordo sulla stessa cosa.

Il primo ricordo che Septemius aveva in merito a questa peculiarità della Troupe Bird riguardava i piatti. Lui poteva aver avuto al massimo cinque o sei anni, e stava appena imparando a cantare nei cori del campo. La mamma lo aveva messo su uno sgabello in coda al carro con un asciugamano mentre lei lavava i piatti e glielo porgeva. La vecchia Brick era venuta e aveva spostato lo sgabello dall’altro lato dicendo qualcosa a proposito del fatto che era sciocco lavare da destra a sinistra quando tutte le persone ragionevoli sanno che si lava da sinistra a destra. Allora papà aveva detto che tutto il sistema era sbagliato, che i piatti dovevano essere immersi in acqua saponata poi asciugati tutti in una volta con il vapore. Poi qualcuno, la mamma probabilmente, sebbene forse si era trattato di zia Amboise, gli aveva gridato qualcosa, e loro tutti si erano alzati litigando come una pentola bollente. Septemius era rimasto incollato al suo sgabello mentre a turno gli altri lo sgridavano. — Non è così, ragazzo? Non è così?

Quella era la prima volta che ricordava ma dopo di essa, ricordava poche altre cose. Tutto quello che Septemius aveva cercato di fare aveva condiviso la stessa incertezza. Che si trattasse di dar da mangiare ai muli o di addestrare i cani o di aspergere l’acqua dal ruscello, o di guidare il carro o di lavarsi i calzini. Se lo faceva la mamma, nessuno la disturbava. Se era il papà a farlo nessuno diceva nulla. Ogni membro adulto della troupe poteva fare quello che voleva senza suscitare che qualche brontolio da parte degli osservatori. Se invece era Septemius a fare qualcosa, ogni componente del gruppo insisteva per fargli vedere come si faceva e nessuno era d’accordo con gli altri. Ciascuno affermava di conoscere l’unico modo corretto e accettabile per fare le cose chiedendogli di dire apertamente se era o meno d’accordo. — Non è giusto così, Septemius? Non è giusto così?

Se lui sembrava propendere per una soluzione piuttosto che per un’altra c’erano lacrime e proteste. La cosa più strabiliante era che alla fine le cose venivano portate a termine e che lui non veniva fatto a pezzi.

Septemius aveva cominciato a pensare a sé come un ammasso di rottami che navigava in un canale pieno di gorghi e mulinelli, ciascuno dei quali era imprevedibile e irragionevole quanto il successivo. Dopo un poco di tempo aveva semplicemente imparato a galleggiare in quella turbolenta corrente di domande, a volte toccando la riva qua e là, senza opporvisi mentre volteggiava tra un gorgo e l’altro prima di essere attirato verso una riva, un albero o un letto di canne. Non lo aveva imparato, comunque, prima dell’arrivo di Octobra e lei arrivò troppo tardi per salvarlo.

Aveva avuto quasi dieci anni. Proprio fuori Abbyville, un uomo alto, muto, aveva portato una ragazzina al loro carro consegnandola a Genetta con un biglietto. La ragazzina era Octobra. Era la figlia di una vecchia amica. Ovviamente Genetta la prese con sé. La troupe l’adottò chiamandola Octobra Bird. Un’altra bambina da tormentare.

E ci provarono davvero; la intrappolarono nella loro rete di domande confuse continuando a domandarle: — Non va ben così, Octy? Non sei d’accordo con me?

Lei non rispondeva mai. Non sembrava neppure notarli. Si scioglieva come neve al sole. Dopo un poco smisero, come se avessero cessato di vederla. Non Septemius, naturalmente. Dal momento in cui era arrivata, con i suoi occhi senza fondo e i capelli come il tramonto, non l’aveva persa un attimo di vista.

Ricordava di essere rimasto sdraiato con lei, faccia a faccia sul retro del loro carro dipinto, mentre la luna tracciava scie sottili dalla finestra, a toccarsi con la punta delle dita. Pollice contro pollice, dito contro dito, bambini che facevano magie.

— Non cambiare — l’aveva pregata. — Non lasciare che ti intrappolino. Senza di te, diventerei pazzo. Non cambiare mai, Octy.

— Non cambierò — gli aveva promesso, premendo le dita cinque volte contro le sue come per fare un giuramento; la sua sorellina adottiva. La sua amante; l’unica spiaggia sicura in un mare sconvolto dal disordine. E alla fine anche lei…

Non aveva mai imparato cosa fosse realmente un terreno solido.

Non era stato solo per le continue ed emozionalmente contrastanti domande cui veniva sottoposto, ma anche per i loro continui vagabondaggi. Niente cui attaccarsi. Nessuno da stringere. Con il passare del tempo, diversi di loro lasciarono la troupe o morirono, ma quelli che erano rimasti avevano continuato a tormentarlo fino alla fine. Persino quando erano rimasti solo Bowough e zia Amboise, avevano continuato a mantenerlo in quello stato di incertezza. — Non è giusto, Septimius? Non sei d’accordo con me? Digli che è pazzo, Septemius.

Ora che era rimasto solo, il vecchio Bowough sembrava aver cessato le sue richieste di approvazione. Ora la sua approvazione sembrava non importare a nessuno.

Septemius aveva appreso a navigare nell’incerto fiume della vita per intuizione e per via indiretta. Grazie a segni e a presagi. Senza mai dire definitivamente sì o no… Continuava a rifiutarsi di dare risposte precise riguardo a qualsiasi cosa. Anche se il Paese delle Donne a volte gli pareva molto solido, dotato di una notevole stabilità, stava sempre molto attento a cogliere le correnti sotterranee, un flusso segreto dove inganno e menzogna scorrevano sotto la superficie. Se si fermava, chiedeva implorando di essere ammesso, tutto sarebbe rimasto nel modo che gli sembrava che fosse? O sarebbe tutto cambiato, improvvisamente, lasciandolo inerme, travolto ancora una volta come un sassolino in un ruscello?

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