L’assemblea. Il momento in cui Wills avrebbe potuto far più danni era passato. Fuori dalle baracche i guerrieri formavano dei quadrati dieci a dieci; la quindicesima centuria. Tutti avevano più o meno quindici anni. Una centuria completa era formata da cento ragazzi. Quella di Chernon non sarebbe rimasta completa a lungo. Nel giro di un’ora avrebbe perso cinque ragazzi.
— C’era un tempo — aveva detto Casimur in uno dei suoi intervalli di lucidità — c’era un tempo in cui una centuria non aveva neppure uno spazio vuoto. Meno di cinque uomini su cento se ne andavano, capisci? Meno di cinque su cento. Ora… ora è tutto un disonore; venti su cento. Ce se sono molti che ritornano oggi. Venti su cento…
— Quando — aveva chiesto Chernon — quando è stato che solo cinque su cento sceglievano di tornare?
— Ai tempi di mio nonno — aveva risposto Casimur. — Me lo ha detto lui. Ai tempi di mio nonno.
Quando si erano schierati sul piazzale della parata, il vento agitava le tuniche, arrossando i nasi, e facendo lacrimare gli occhi; Chernon pensava alle parole di Casimur, in attesa che la ventiquattresima centuria marciasse con lo sguardo fisso in avanti, distante da Habby che stava al suo fianco. Quando furono passati i ventiquattrenni scacciò le lacrime portate dal vento freddo e contò i mancanti. Ventun spazi nelle fila. Settantanove uomini. Casimur aveva ragione. Diciamo che cinque se ne andavano all’età di quindici anni, poi un paio ogni anno finché la centuria non fosse arrivata all’età in cui si cominciava a combattere. L’hanno prossimo quella centuria sarebbe diventata la venticinquesima e avrebbe contato meno di ottanta uomini nelle sue fila.
— Ma saranno i migliori a rimanere — pensò Chernon, ripetendosi quello che gli aveva detto il centurione. — I migliori guerrieri; meglio avere ottanta buoni guerrieri che cento tra cui venti codardi…
— FATE UN PASSO AVANTI — urlò il centurione. — COLORO CHE SCELGONO L’ONORE FACCIANO UN PASSO AVANTI.
— Arrivederci — disse Habby, dalla sua posizione di fianco a Chernon, con un sussurro.
Insieme a novantaquattro compagni della sua età, Chernon si fece avanti lasciando che gli altri cinque si spogliassero delle loro tuniche rimanendo nudi, esposti alle folate di vento freddo. Quando la centuria ebbe compiuto un giro di marcia sempre mantenendo lo sguardo avanti, i cinque ragazzi nudi se ne erano andati, scortati alla garitta per la cerimonia.
Nessuno sembrò notarlo. Nessuno avrebbe mai ripetuto i loro nomi. La quindicesima centuria tornò a passo di marcia poi alla posizione di partenza, dove li aspettava il comandante con i suoi attendenti che portavano i picchetti con le insegne d’onore.
— Quindicesima centuria — esclamò il Comandante mentre la sua voce tagliava il vento come un coltello fa con il formaggio tenero. — Onorevoli guerrieri della guarnigione di Marthatown. Vi diamo il benvenuto nelle nostre fila dove troverete doveri, disciplina e pericolo. Vi diamo il nostro benvenuto nella compagnia della gloria. Vi diamo il benvenuto come compagni d’onore e a voi noi concediamo il primo di molti nastri blu a testimonianza della vostra onorevole scelta.
Poi tutte le centurie sfilarono per il campo della parata mentre i cerimonieri e gli attendenti passavano tra le fila della quindicesima appuntando nastri blu a ogni uomo cui veniva offerta anche una coppa di vino. Chernon sentì che le lacrime gli scendevano sul viso, si sentì pieno di vergogna finché non si accorse che anche i compagni che gli stavano a fianco piangevano. Povero Habby. Povero Habby che non si era reso conto di quello che stava facendo. E per cosa?
Poi i nuovi guerrieri si girarono su un fianco. I tamburi cominciarono a rullare la marcia funebre. Casimur era morto il giorno precedente e in quel momento stava sfilando la trentunesima centuria. Passarono quanrantacinque uomini; venti posti erano stati lasciati dai codardi che erano tornati nel Paese delle Donne e altri venticinque da onorevoli guerrieri morti al cui posto sfilavano i ragazzi che portavano il loro nastri. — Onorevole Chernon — ordinò il Comandante. — Chernon, sfili con le insegne di Casimur.
E così fu. Stretta tra le mani di Chernon, c’era la lancia di Casimur con l’impugnatura ornata da nastri luccicanti in così grande numero da sembrare code di gatto che sventolavano al vento. Chernon andò a riempire il posto vuoto nella trentunesima come riserva. Fanfare e tamburi accompagnarono la sfilata della trentunesima centuria ancora in forze, con i vivi che sfilavano accanto ai morti rappresentati dai ragazzi che ne reggevano le insegne. Gli unici buchi vuoti erano quelli lasciati dai codardi.
Le centurie riunite resero gli onori, con voce sempre più forte, sino a diventare un ciclone. Le campane suonarono. Le fanfare urlarono al cielo. I nastri sventolavano sul viso di Chernon come piccole mani, schiaffeggiandolo e raccomandandogli: — Fai attenzione.
Il sangue gli ribolliva nelle vene. La musica delle fanfare lo esaltava. Il martellare dei tamburi divenne il martellare del suo stesso cuore. I piedi degli uomini che picchiavano all’unisono, la frustata delle insegne, i nastri, le piume, e tamburi, tamburi, tamburi… Onore, gridavano le fanfare. Onore, ribattevano i tamburi. Potere, urlava la guarnigione. E fu evidente che era l’onore di Casimur di cui parlavano ed era Casimur stesso che marciava occupando con onore il suo posto. Casimur che aveva rifiutato la Tazza della Dolce Fine e che non aveva scelto di tornare attraverso la Porta delle Donne.
Era come se le vene di Chernon fossero state piene di fuoco. Ecco perché era ancora là. Era là per imparare tutto ciò, la possente confusione di movimenti e suoni, la marcia in cui Chernon non era che uno dei fili, scintillante come l’oro, i fili di tutte le centurie intorno a lui, i centurioni, i quindicenni, i venticinquenni, i trentunenni e tutti gli altri sino ai settantenni, una centuria composta da un solo uomo circondato dalle insegne dei compagni che non sarebbero più tornati.
Era una gloria tonante e lui ne faceva parte; ora ne era diventato improvvisamente parte.
Se avesse potuto essere nella stanza del cerimoniale, avrebbe spogliato Habby, gli avrebbe sputato addosso, lo avrebbe insultato e avrebbe aiutato gli altri a picchiarlo e non gliene sarebbe importato nulla delle storie che sarebbero circolate sul suo conto nel Paese delle Donne.
Septemius Bird entrò a Marthatown a più di sessanta anni attraverso la Porta degli Itineranti, mostrando il suo libretto di viaggio che recava i timbri e i contrassegni di più di una dozzina di città. Non aveva idea di quanto si sarebbe fermato in città.
— Septemius Bird? — la donna adibita alla guardia dell’ingresso si era mostrata solo leggermente incredula.
— Septemius Bird il ritardatario — disse con una smorfia, appoggiando il dito alla narice come se avesse voluto impedirsi uno starnuto. Le sopracciglia inarcate verso l’alto gli davano l’aspetto di una maschera mefistofelica, che mostrava il suo lato oscuro, quello favorito in circostanze simili.
— Il ritardatario?
— Sempre, inevitabilmente! — sospirò. — A giudicare da quanto sei bella, direi che avrei dovuto venire qui una settimana fa, o magari un mese.
— Non con il passo degli itineranti — sorrise la donna, mostrandosi poco impressionata da tanta teatralità. — Sei venuto per il carnevale, immagino?
— Anche questo è inevitabile — rise lui, mostrando denti bianchi e appuntiti come zanne ai lati della bocca, simile a un vampiro, leccandoli velocemente come se avesse potuto sentire il sapore del sangue. In realtà non erano zanne ma semplici denti un poco più grandi e appuntiti degli altri, si disse la guardiana con un mezzo brivido di piacere. — Sei un mago?
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