— Una notte che non è mai esistita — ricordò Stavia. — Che non è mai avvenuta.
Per lungo tempo, dopo quella notte, si era sorpresa a immaginare cosa poteva essere accaduto. Uomini con tatuaggi appartenenti a diverse guarnigioni, tutti insieme, come fossero stati scelti per formare una specie di guarnigione che raggruppava tutte le altre. Per cosa? Era quasi diventata matta domandandosi cosa era avvenuto e infine aveva deciso che, se non poteva parlarne, allora era meglio far finta che non fosse mai accaduto nulla. La parte attrice di lei era in grado di farlo facilmente; per la parte che recitava nulla era accaduto. L’osservatrice, tuttavia, trovava difficile questo atteggiamento selettivo.
Con tutti gli uomini sopra i venticinque anni andati in guerra a eccezione di pochi armigeri e dei cuochi, i guerrieri più giovani e i ragazzi rimasti erano più o meno liberi di muoversi nel territorio della guarnigione come volevano e Stavia trovò Chernon che l’aspettava sul tetto dell’armeria la prima volta che lei e Beneda salirono sulle mura. Il suo cuore rallentò, poi cominciò a tambureggiare e si sentì terrorizzata.
— Benny, mi lasci parlare da solo con Stavia, per favore?
— Stavia è troppo giovane per un appuntamento, fratello — disse Beneda, facendo finta di non aver portato Stavia sulle mura dietro sua richiesta.
— Non sto cercando un appuntamento; ora te ne vai, per favore?
Beneda arrossì, fingendo di essere irritata. Sperava con tutte le sue forze che Chernon tornasse a interessarsi a Stavia. O almeno così credeva.
— Stavvy. — I suoi occhi erano così chiari; la pelle della mano che era salita ad accarezzarla era soffice come quella di un bambino.
Voleva che la toccasse, che l’abbracciasse. — Mi sei mancato — balbettò. — Vorrei che non ti fossi arrabbiato con me.
— Io… non ero arrabbiato con te. Non veramente. So cosa stai cercando di fare, Stavvy, e questo è il motivo che mi ha portato qui. Devo spiegarmi, capito?
“Falle capire che non vuoi accontentarla, ragazzo” gli aveva detto Michael. “Falle capire che non è importante per te. Allora si romperà il collo per diventarlo. Le donne son fatte così.”
“Stavia è… una persona indipendente” aveva obiettato Chernon.
“Non importa quanto pensino di esserlo” era scoppiato a ridere Michael. “Sono tutte uguali”.
— Che cosa devi spiegarmi? — domandò Stavia, tremante.
— I quindicenni dovranno scegliere tra pochi mesi. Devo spiegarti che rimarrò con la guarnigione.
Stavia ascoltò quelle parole senza sorpresa. Bene, era così dunque. Che utilità c’era a stare là ad ascoltarlo ancora? Poteva andarsene adesso, andare a casa, a macerarsi nel dispiacere. Morgot diceva che era necessario farlo, abituarvicisi. Non aveva senso continuare quel colloquio.
— Stavvy — c’era qualcosa sul suo viso che lo spaventò. Michael poteva aver torto. Poteva aver sbagliato. Non sa nulla. Michael non riesce a far parlare Morgot, e così non sa nulla. — Stavvy.
— Sì.
— Non guardarmi così — temporeggiò, cercando di far sembrare le sue parole meno secche e incontrovertibili. Michael non avrebbe agito a quel modo, ma Chernon pensava che fosse necessario. — Non vedi? Se non fosse per la guerra, non avrei agito così. Ma non ora, non con la guerra. Non con tante possibiltà di essere uccisi, non con tanti uomini che torneranno feriti e che avranno bisogno di aiuto. Avrò ancora dieci anni per chiarirmi le idee e decidere se tornare al Paese delle Donne. Dopo la guerra, quando tutto si sarà calmato.
— Non capisco perché non puoi farlo ora.
— Non posso lasciare i miei amici — disse lui con voce severa, come se stesse pronunciando il Giuramento del Difensore. — Non ora.
— Ma credi che lo farai in seguito?
— Be’… non posso dirlo ora, Stavvy, salvo che per i libri. Ci sono così tante cose da scoprire. Cose che tu sai. So che dovrei venire al Paese delle Donne per farlo; ma non posso comportarmi da egoista.
— Capisco — il tono della sua voce faceva comprendere che in realtà non era così.
— Non capisci; ma spero che lo capirai in seguito e mi rispetterai per questo.
— Noi rispettiamo i guerrieri — rispose lei con tono formale, come in un ritornello. — Farai quella cosa terribile a tua madre? Le dirai che ha insultato la tua virilità?
La domanda lo aveva colto di sorpresa. In realtà, e con molta soddisfazione, aveva pianificato di fare proprio così. — N-n-no — borbottò. — Non è obbligatorio. Non credo che lo farò.
— Be’, è già qualcosa.
— Ma tu continuerai a portarmi dei libri, per favore? Per favore, Stavvy. Non posso farne a meno. Veramente non posso — i suoi occhi erano pieni di lacrime, le labbra tremavano; veramente non poteva rinunciare ai libri. Stava dicendo la verità.
Sebbene tutto dentro di lei volesse rispondergli di sì, Stavia scosse il capo. Non sapeva. Doveva chiedere consiglio a qualcuno. Forse a Joshua.
— Non lo so — disse. — Non ne sono sicura; non sono sicura che la guerra faccia qualche differenza; le guerre ci sono sempre.
— Lo spettro di Polissena appare in cima alle mura — disse la regista. — Lentamente, scende lungo le scale.
Stavia, diventata membro del Concilio, interpretava Ifigenia. Con la bambola che rappresentava Astianatte tra le braccia, si volse e lanciò uno sguardo lungo la scala che simulava le mura; la donna che recitava il ruolo di Polissena era rannicchiata alla sua sommità; per un momento Stavia non riuscì a ricordare le battute poi, quando il suggeritore iniziò, rammentò la parte.
IFIGENIA: Così sei venuta alfine, Polissena. Ti prego vieni a prendere questo bimbo.
POLISSENA: Non mi piacciono i bambini. Forse le bimbe che hanno qualche speranza di vita ma non i bambini. I bambini giocano con la morte come se fosse una gara, affilando denti e spade. No, non mi piacciono i bambini.
IFIGENIA: Apprezza questo. È tuo fratello.
POLISSENA: Il figlio di Ettore? Be’, allora lo hanno ucciso dunque.
Stavia cercò di pronunciare la battuta successiva, ma avvertì un dolore al petto, proprio sotto le costole come un colpo di pugnale. — Be’ lo hanno ucciso, dunque — disse, ripetendo la battuta di Polissena. Udì la sua voce con disappunto, che inconsciamente si affievoliva.
La regista le lanciò un’occhiata poi interruppe la prova, aspettando che gli altri si allontanassero prima di chiedere: — Cosa succede, Stavia?
— È solo che… è solo che sono le stesse parole che disse mia sorella, molto tempo fa. Ultimamente sono stata piuttosto sconvolta. Troppi ricordi — cercò di sorridere senza riuscirvi.
La regista sospirò. — Sei stanca, ecco tutto. Ti ho fatto ripetere tutto troppe volte. Colpa mia. Non so cosa voglio finché non lo vedo, e voi continuate a ripetere finché io non ottengo quello che voglio. Oggi abbiamo lavorato a sufficienza. Riposati un poco. Domani proveremo di nuovo.
Stavia aveva appena compiuto tredici anni quando giunsero gli araldi dal campo di battaglia con la notizia che le armate di Marthatown e Susantown stavano preparandosi a un’onorevole battaglia. L’araldo era entrato nel Paese delle Donne attraverso la Porta del Campo di Battaglia dopo che tamburi e fanfare avevano suonato a lungo e una deputazione del Concilio si era recata nella piazza per udire le novità.
Dalla sua posizione al secondo livello del colonnato, Stavia aveva visto Morgot scendere nella piazza da est, dove si trovavano le Camere del Concilio, con il vestito da cerimonia frettolosamente allacciato che svolazzava attorno a lei e il velo blu scuro delle matrone agitato dalla brezza. Anche da lontano, Stavia riusciva a vedere il biancore degli occhi di Morgot, così pallidi che sembravano ciechi al resto del mondo. Quanto le sembrava strano essere ciechi e vedere così distante.
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