— Ora mangiamo — disse Joshua, accendendo un piccolo fuoco a una certa distanza dagli altri. — Prenderemo il tè, mangeremo la zuppa e distenderemo le coperte qua, in piena vista. Non appena farà buio torneremo vicino al carro. Capito?
— Stavia, sali su un albero — ordinò Morgot. — Ho sparso la polvere dappertutto.
Stavia spalancò la bocca per protestare, poi la richiuse nuovamente. Protestare era inutile. Non sapeva contro cosa protestare. Stavano succedendo troppe cose delle quali non comprendeva il significato.
E neppure le era venuta in mente un’idea migliore quando l’oscurità calò come un sipario e lei si ritrovò rannicchiata su un grosso ramo a diversi metri dal carro, avvolta in una coperta che la proteggeva dai rami appuntiti.
— Non dire una parola — le aveva raccomandato Morgot. — Non emettere un suono. Se senti male, soffri in silenzio e non far rumore.
Riusciva a sentire solo una conversazione sussurrata, un borbottio di persone che si preparano al sonno. Niente di interessante. Oscurità. Sconfortante. Un cielo pieno di stelle. Da qualche parte qualcosa si muoveva nel sottobosco.
Stavia era carica di tensione.
Poi venne il richiamo di un uccello, forse un segnale. Non di Joshua. Non di Morgot. Poi vide alcune persone che si muovevano verso il carro.
Un grido. Lo sfavillare di una luce, che si sprigionava in diverse direzioni come un fuoco d’artificio e fiamme che divamparono dalle cataste che Morgot aveva predisposto. Stavia vide della gente sotto di sé, figure che si agitavano con frenesia vicino ai muli, nei pressi del carro, e numerosi altri sconosciuti che giravano in circolo, presi di sorpresa. Uno di essi tentò di girare il capo ma fu decapitato e la sua testa rotolò lungo la collina. Un arco argentato sfavillò nel punto ove si era trovato il suo capo. La sagoma circolare scomparve. Stavia aprì la bocca per urlare poi decise di mordersi a sangue la lingua.
Qualcun altro urlò poi rimase immobile a guardare il punto dove un tempo c’era stato il suo braccio. Si era avventato verso il punto dove avrebbe dovuto esserci il giaciglio di Morgot protendendo una mano che ora non era più al suo posto. Altre grida, urla di dolore, qualcosa che volteggiava simile a un piatto d’argento. Stavia non riuscì a impedirsi di emettere un gemito.
Sotto di lei, qualcuno alzò lo sguardo, la vide, sogghignò con i denti marci e cominciò ad arrampicarsi sull’albero. Nuovamente il disco d’argento sfavillò alla luce del fuoco e lo tagliò in due.
Poi calò una grande silenzio. Si udiva solo il crepitare dei fuochi. Una brezza leggera tra le fronde degli alberi. Johsua si trovava accanto al carro, impegnato a infilare qualcosa sotto il fondo. Una manopola alla cui estremità c’era una catena con una lama ricurva all’estremità. Morgot gliene porse una simile poi prese un paio di tenaglie con l’impugnatura di legno e cominciò a togliere le pastoie ai muli.
— Peccato — disse Morgot. — Ahimè, questo è il destino dei figli dei guerrieri. — La sua voce era pacata, senza intonazione, priva di emozioni, eppure vi era una nota di stanchezza come quando tornava da una lunga seduta del Concilio o quando Stavia la svegliava nel mezzo della notte, chiedendo una tazza di tè fumante. — Stavia, puoi scendere adesso.
— Sto scendendo.
— Vai direttamente nel carro, figlia mia. Non voglio che tu veda tutto questo orrore.
— Quanti… quanti erano?
— Joshua?
— Ne ho contati sette. Penso che uno sia riuscito a scappare — la sua voce aveva un’intonazione irritata e depressa.
— Raccolgo le coperte — Morgot si aggirò per il campo scavalcando le sagome deformi che le intralciavano il passo. Tornò dopo pochi attimi. — Dovremo lavarle, Josh. Guarda la spalla di quello.
L’uomo obbedì chinandosi sul cadavere. — Un tatuaggio di Melissaville — disse. — Quello laggiù ha il marchio di Mollyburg.
— Io ne ho visto uno di Annville e uno di Tabitahtown; penso che gli altri fossero zingari.
— Sembra quasi che fossero stati indirizzati da queste parti, vero? — chiese Joshua. — Presi un po’ di qui e un po’ di là.
— Cosa ne pensi?
— Penso che quello che è scappato avese il marchio di Marthatown. Oltre a questo non ho molto da dire. Strano. Non capisco. Non ho ancora un’idea precisa.
— Qualcuno potrebbe venire a cercarli.
Joshua sospirò. — Ricordo che ci deve essere un burrone a circa un paio di chilometri.
Anche Morgot sospirò. — Stavia, va’ a metterti vicino a quella roccia. Stendi la tua coperta e restaci finché non ti chiamo.
— Mamma, cosa…?
— Ricordati la promessa, Stavia.
— Ho promesso di non parlarne in seguito.
— Adesso è “in seguito”. Non dire un parola.
Stavia tornò a mordersi la lingua già martoriata. Non le avrebbero spiegato nulla. Non avrebbero detto nulla. Avrebbero lasciato le cose come stavano. Entrò nel carro. Una delle tavole che costituivano le brande dentro di esso era fuori posto. Le sferrò un calcio per rimetterla a posto. Sotto c’era qualcosa. Chiaramente era una specie di arma. Armi. Ma Joshua non era un guerriero. E Morgot…
E lei aveva promesso di non fare domande.
Alzò lo sguardo scoprendo gli occhi luminosi di Joshua che la fissavano, con un’espressione di ammonimento.
Prese le sue coperte e si diresse alla roccia che Morgot le aveva indicato distendendovisi accanto, completamente sveglia, mentre Morgot e Joshua raccoglievano ciò che rimaneva nel carro. Dopo un poco, Joshua si diresse verso oriente, borbottando tra i denti rivolto alla luna. Morgot accese le lanterne e girovagò attorno all’accampamento con una piccola spegnendo ciò che rimaneva dei fuochi salvo uno, cancellando tutte le impronte, gettando terra sopra le macchie di sangue rimaste sul terreno, che poi spazzava con arbusti prima di ricoprirlo con pezzi di legno e pietre. Dopo un poco si avvicinò a Stavia, si sdraiò a sua volta e si addormentò.
Poco dopo l’alba, Joshua tornò al carro vuoto. Morgot e Stavia lo raggiunsero e si prepararono a partire.
— Pensi che arriveremo a casa prima di cena? — chiese Stavia mentre ripiegava le coperte macchiate di sangue in una pila ordinata sul retro del carro, badando di non incontrare direttamente lo sguardo né della madre né di Joshua. Chiunque o qualunque cosa fosse in realtà quell’uomo.
Tutto quello che riusciva a ricordare erano le parole di Myra: “Bell’aiuto sarà, è solo un servo!”.
Durante il carnevale estivo, quando Stavia ebbe compiuto i dodici anni, venne un nuovo mago particolarmente abile da Tabithatown. Furono rappresentati come al solito due spettacoli al giorno nel teatro estivo, si svolsero le danze per le strade e i volgari festeggiamenti nelle taverne. Prima del carnevale Myra era andata al centro medico facendovi ritorno con un marchio rosso sulla fronte e un impianto sul braccio. Sembrava pallida e stanca ma era stranamente eccitata, o così almeno pensò Stavia, sebbene Morgot non avesse fatto commenti.
— La dottoressa ha detto che il mio equilibrio ormonale è stato sconvolto dalla nascita di Marcus — si lamentò la sorella maggiore con Stavia. — Quest’affare sul braccio dovrebbe riequilibrarmi.
— Sono molto efficaci — borbottò Morgot; — Sono contenta che la dottoressa Charlotte ci abbia pensato.
Stavia aveva udito a malapena i loro discorsi. Stava per iniziare il carnevale estivo e Chernon sarebbe venuto a casa.
— Stavia, dovresti procurarti qualche vestito nuovo — si lamentò Myra. — Dovrebbe proprio, Morgot. Ha dodici anni ma si veste come una bambina. Sottovesti e gonne dritte. Niente di carino.
— Stavia farà come vuole — disse Morgot. — Se si sente comoda così, non ci sono problemi.
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