Come alternativa, dal motel «La Cucaracha» poteva uscire di me appena quel che bastava per essere rimandato a casa per la sepoltura.
Non ebbi il tempo di farmi altre domande. Il mio silenzioso collega ed io fummo spinti in una delle piccole stanze, dove ci venne ordinato di sedere sul bordo del letto e starcene quieti, mentre Moe si piazzava sulla soglia con gli occhi fissi su di noi e l’altro faceva il palo all’esterno. Non dovemmo aspettare per molto. Da lì a poco la porta batté sulle spalle di Moe, che si tolse di mezzo senza neppure guardare chi era.
A entrare fu Nyla Christophe, con le mani unite dietro la schiena.
Portava un cappellino da sole e occhiali neri. Come al solito la sua espressione era indecifrabile, ma potrei dire che ci esaminò con pensosa indifferenza… quella stessa indifferenza con cui il cane s’arrota i denti sul solito vecchio malridotto osso. La sua voce non ebbe nulla di spiacevole salvo il fatto che era la sua voce, quando disse: — Va bene, voialtri due, adesso potete togliervi quei veli dalla faccia.
Farlo mi diede un certo sollievo, visto che eravamo nel deserto e stavo sudando. L’altro uomo si mosse invece lentamente e controvoglia, e levandosi il velo rivelò un’espressione offesa, spaventata, infelice… tutti sentimenti che m’ero aspettato. Ma ciò che non m’ero aspettato era che quell’espressione appartenesse alla faccia di Larry Douglas.
Fino ad allora ero stato assolutamente certo che Larry Douglas aveva una parte di colpa nelle mie disgrazie di quegli ultimi giorni. Come, non lo sapevo. Perché, non potevo neppure immaginarlo. Così non mi misi a piangere nel vederlo preso nella stessa trappola in cui m’aveva aiutato a cadere… solo che questo rendeva tutto molto più confuso per me. Se aveva riferito a Nyla Christophe ciò che gli avevo detto quando mi aveva trascinato a far visita a quel vecchio attore in disuso, perché era prigioniero come me? E cosa stavamo facendo lì nel New Mexico?
Notai con stupore che Douglas aveva le mie stesse perplessità. — Nyla — disse, sforzandosi inutilmente di avere una voce ferma. — Cosa diavolo significa tutto questo? I tuoi ragazzi sono piombati in casa mia e mi hanno trascinato giù dal letto, senza neppure dirmi una parola…
— Tesoruccio — disse dolcemente lei, — tappati la bocca. — Malgrado gli occhiali neri, lui poté vedere abbastanza della sua espressione da deglutire a vuoto. Tacque. — Così va meglio — approvò lei. Girò appena la testa. — Moe?
— Sì, miss Christophe?
— Il laboratorio mobile è già qui?
— Parcheggiato proprio dietro il motel. È tutto pronto.
Lei annuì. Si tolse cappello e occhiali e sedette nell’unica e consunta poltrona di cui era fornita la camera. Senza voltarsi a guardare protese una mano di lato. Moe le infilò una sigaretta fra l’indice e il medio, poi fece scattare l’accendino. — È possibile — disse lei, — che voi due siate puliti, in questa faccenda. Ma ci sono alcune cose che dovete chiarire.
— Oh, finalmente, Nyla! — gemette Douglas. — Io lo sapevo che doveva essere tutto un malinteso!
Ed io riuscii a chiedere quello che, con mia vergogna, ammetto di non aver chiesto neppure a me stesso in quei giorni: — Cosa ne è stato della mia fidanzata e degli altri, miss Christophe?
— Questo dipende da voi, DeSota. Se il piccolo test che adesso faremo andrà come io penso, tutti loro saranno rilasciati.
— Grazie al cielo! Uh… di quale test sta parlando?
— Quello che vi verrà fatto adesso — disse. — Avanti, Moe, faglielo. — E lasciò la camera, facendo entrare l’altra guardia con una valigetta metallica dietro cui venne un individuo in camice bianco con una valigia in mano anche lui.
Non potei fare a meno di ripiegarmi su me stesso; ma subito fu chiarito che Moe non si apprestava a picchiarmi ancora. Ciò che misero in atto prese parecchio tempo, tuttavia non era nulla di spiacevole… be’, non fu neanche troppo divertente. Mi presero le impronte digitali e quelle delle scarpe; mi presero varie misure degli orecchi e la distanza fra le pupille. Mi prelevarono campioni di sangue, di saliva e di pelle, quindi dovetti orinare in una bottiglietta e defecare in un vaso di carta. Non fu cosa breve. L’unico elemento che la rese meno detestabile fu che il mio detestabile compagno di prigionia — l’anguilla dei tribunali Larry Douglas, il mio cospiratore del Carson coffee-shop, l’uomo che mi aveva fatto sprecare una serata dai Reagan a Dixon, Illinois — dovette fare le stesse cose che facevo io.
E gli piacquero ancor meno. Moe e l’altra guardia esibirono all’improvviso una sensibilità delicata e preferirono uscire a sorvegliarci dalla finestra; così, intanto che il tecnico del laboratorio si dava da fare, Douglas e io potemmo parlare un poco. La mia prima domanda fu quella su cui più m’ero arrovellato: — Chi diavolo sei tu? Una specie di federale travestito?
Aveva l’aria di un cane bastonato, e la sua risposta fu un grugnito: — Grattati la rogna tua, DeSota. — Fissò cupamente il mio sangue che risaliva in una siringa, premendosi un dito sulla vena dell’avambraccio dove il silenzioso tecnico aveva appena salassato lui.
— E allora cosa sei? L’amichetto di Nyla Christophe? Il suo complice? Il suo prigioniero?
Lui borbottò appena: — Sì. — Abbassò i pantaloni e si lasciò prendere un campione di pelle da una natica. — Se fossi al tuo posto, DeSota — disse, ostile, — non mi preoccuperei tanto degli altri. Hai un’idea del guaio in cui sei infognato?
Gli risi in faccia. Tutti i dolori e le miserie del mio corpo non stavano facendo altro che dirmi in che guaio ero. — Comunque — pùntualizzai, — lei ha detto che forse siamo puliti, e allora di cosa dovrei preoccuparmi?
Mi guardò fra la pietà e il disgusto. — Questo è quel che ha detto, certo. Ma le hai sentito dire anche che sarai rilasciato, per caso?
Fui costretto a deglutire un groppo di saliva, prima di replicare: — Di che accidenti stai parlando, Douglas? — Lui scosse le spalle e si volse a guardare il tecnico, senza rispondere. Da lì a poco l’uomo raccolse i campioni e mise gli strumenti nelle valige, poi se ne andò. Le guardie non rientrarono, anche se le potevamo vedere sedute sulla balaustra che si facevano vento e guardavano verso la strada. Al di là di essa, sulla linea ferroviaria, stava passando un elegante treno passeggeri, e con una stretta al cuore ripensai a Greta. Dissi, ancora: — Di che stai parlando? Lei ha detto che probabilmente ci farà rilasciare…
— Non «noi», DeSota. Loro. I testimoni, che non sanno niente. Tu sei un esemplare del tutto diverso. Tu sai molte cose.
— Ah, sì? — Mi frugai nel cervello e continuai a trovarlo vuoto. — Buon Dio, uomo, se non so neppure cosa vuole da me!
Strinse le palpebre. — La principale cosa che sai è che c’è qualcosa da sapere. Ed è la cosa più grossa. Come hai fatto a trovarti in due posti nello stesso momento?
— Come ho fatto cosa? — esclamai.
— Ma sai che è successo questo — insisté. — Perciò sai che è possibile. E sai che qualcuno… diciamo un criminale, può fare qualcosa, diciamo commettere un delitto, e tuttavia avere un centinaio di testimoni insospettabili pronti a giurare che lui era qualcun altro. Gesù, ragazzo! Sai cosa significherebbe per uno come me? Voglio dire uno che avesse bisogno di questo genere di alibi? — si corresse.
— Ma non so come sia potuto succedere — gemetti.
— L’unico a crederti sono io — sbottò acidamente. — Svegliati un po’. Credi davvero che Nyla ti rimanderà a casa, perché tu possa dire ad altri come hai fatto?
Sedetti, scosso da quelle parole.
Riuscivo a vedere la logica di quel ragionamento. E correva voce che i campi di lavoro dell’FBI fossero pieni di gente in possesso di informazioni che non era permesso rendere pubbliche. Se quello era il mio caso…
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