Mentre li illustravo mi accorsi che non godevo dell’attenzione di John Kennedy. I suoi occhi erano su di me ma guardavano dritti attraverso il mio corpo, e invece di mangiare la salsa di riso ci stava facendo dentro dei ghirigori con la forchetta. Diedi la colpa alla sua schiena, e Lavi ebbe lo stesso pensiero: — Ah, senatore! — intervenne, con quel suo buonumore da orso russo. — Perché non viene a Mosca a farsi vedere da uno specialista? L’Istituto Medico Djugashvili, che deve il nome a mio nonno e non a me, ha i migliori chirurghi del mondo, senza discussione!
— Potrebbero darmi una schiena nuova? — borbottò lui.
— Trapianto spinale. Perché no? Abbiamo Azimof, il migliore in questo campo. Ha già fatto quattrocento trapianti di cuore, senza contare quelli di fegato, di testicoli e Dio sa cos’altro. Si dice che un giorno, dopo una mattinata molto intensa, sedette a tavola davanti a un pollo alla diavola, e prima di rendersene conto gli aveva già trapiantato i reni e un polmone.
Io risi. Jackie rise. Tutti intorno al tavolo ridemmo, eccetto il senatore. Piegò le labbra, ma il suo sorriso non durò. — Scusami, Lavi — disse. — Ma ho paura che stasera il mio «sense of humor» sia in sciopero. — Mise giù la forchetta e si sporse in avanti. — Gary, hai detto che stavano portando qui in volo Jerry Brown, vero? Voglio dire il nostro Jerry.
— È così, senatore. L’hanno localizzato nel Maine, ma l’aereo era in ritardo a causa del cattivo tempo.
Il senatore si massaggiò ancora la schiena, con un grugnito. — Dio solo sa a cosa potrà servirci Brown — disse, accennando al cameriere di portar via il suo piatto. — Ma suppongo che almeno ci darà un’immagine personale e politica del suo doppione, sulla quale regolarci.
Hart annuì. — Vorrei che avessimo stabilito una miglior linea di condotta con quella gente. Forse possiamo scovare un po’ dei loro doppioni, qui da noi, e metterli al lavoro su qualche idea.
Nessuno dei due stava guardando me, ma Jackie si. — Nyla — disse, — tu conosci Dom DeSota, naturalmente. — E cominciai a capire il motivo per cui ero stata invitata. Senza esprimere il concetto apertamente, Jackie mi stava conferendo il titolo onorario di moglie… come si potrebbe dire… fidanzata. Non avrebbe potuto trattarmi meglio se Dom e io fossimo stati regolarmente sposati. E non mi avrebbe trattato meglio, se fossimo stati sposati, perché la reputazione di Dom era chiaramente colata a picco.
O forse no, dato che proseguì: — Penso che tu gli abbia parlato poco prima che partisse per il New Mexico, al party, no? — Un’esibizione di tatto! Ma l’aiutante di Dom doveva aver parlato. — Mi chiedo se non abbia detto qualcosa circa il motivo.
Esitai. — Non so se voi siate al corrente di quel che facevano a Sandia…
Lavrenti disse: — Penso proprio di sì, mia cara Mrs. Bowquist. Perfino io ho raccolto certe voci.
— Potete parlare liberamente — dichiarò il senatore. — Se prima era un segreto, adesso non lo è più.
— Bene… il senatore DeSota disse qualcosa a proposito di un doppione di se stesso. Identico. Voglio dire, aveva perfino le stesse impronte digitali. L’hanno convocato là per metterlo a confronto con quest’altro uomo.
— Eccolo il fatto! — esclamò trionfante Gary Hart. — È proprio come sospettavamo, senatore. L’uomo che ha parlato in TV non era per niente il nostro Dom DeSota.
Il senatore annuì. Si volse al maggiordomo. — Prenderemo il caffè nel mio studio, Albert. E poi a noi: — Andiamo a dare un’altra occhiata a quest’uomo, in TV.
Anche così mi occorse un po’ di tempo per capire quello che volevano provare. Lo studio in cui ci accomodammo… be’, non era ciò che io avrei chiamato uno studio. Era più largo del mio salone di soggiorno a Chicago, e una trentina di persone avrebbero potuto riunirsi lì senza sentirsi in carenza di spazio. C’erano quattro schermi televisivi normali e uno gigante, collegamenti diretti con tutti i satelliti americani o stranieri, e un certo numero di videoregistratori. John Kennedy sedette in un angolo col suo sigaro in mano, sotto il condizionatore d’aria, e mordicchiandosi le nocche delle dita studiò il replay dell’esibizione di Dom, della faccia di Dom, delle parole che io non riuscivo a credere di sentire dalla bocca di Dom.
Anche John Kennedy sembrava non crederci. — Che ne pensate? — domandò attorno. Nessuno gli rispose, e vidi che Hart stava fissando me.
Per un attimo mi chiesi se, in qualche modo, non mi ritenessero complice o responsabile dell’incredibile voltafaccia di Dom. Di nuovo la coscienza sporca, naturalmente.
Poi a quel pensiero se ne sostituì un altro.
— Fatemelo vedere di nuovo, vi spiace? — chiesi, e m’accorsi che mi tremava la voce. Frugai nella borsetta, ne tolsi gli occhiali e li misi, cosa che non facevo mai in pubblico. Fissai intensamente il volto del mio amante, studiandone ogni linea, analizzando il tono di ogni parola, assorbendone ogni gesto.
Dubbiosa mi accigliai. — Mi sembra alquanto dimagrito, no? Come se fosse stato sottoposto a molta tensione… o qualcos’altro.
— O qualcos’altro — affermò Hart. — Avevamo intuito giusto, senatore. Questo non è il nostro Dom DeSota, è il loro.
— Io lo sapevo — affermò placidamente Jackie, che era venuta accanto alla mia poltrona. Sentii una sua mano su una spalla, rassicurante. Avrei potuto baciarla. Quel nodo d’angoscia che non m’ero accorta d’essermi portata dentro fino ad allora si sciolse di colpo. Oh, Dom! Sarai un adultero è vero, ma non potresti mai essere un traditore!…
— Adesso — annunciò il senatore, — credo che dovremmo dare un’occhiata a quel rapporto della CIA, Gary. — Inforcò gli occhiali, prese il fascicolo che il collaboratore gli porgeva e cominciò a leggere la prima pagina.
Non li ascoltavo più. Ero troppo occupata ad assaporare il mio sollievo. Non che questo sistemasse tutto, naturalmente. C’era ancora Ferdie. Per non parlare di Marilyn DeSota. Ma almeno uno dei pesi che mi schiacciavano m’era stato tolto di dosso.
Mi chiedevo che ore fossero. Se avessi potuto liberarmi presto e tornare all’albergo… se ce l’avessi fatta a chiamare Ferdie prima che andasse a letto… forse adesso sarei stata capace di controllarmi abbastanza da potergli dire quel che avevo tanta paura di dire. Ovviamente restava il problema Marilyn…
E non c’era niente di ovvio, in Marilyn! Che diavolo stavo pensando? Come potevo meditare di confessare il nostro segreto senza informarne Dom? Come potevo soltanto pensarlo, senza prima essermi consultata con Dom innanzitutto?
Di nuovo brancolante nelle mie incertezze cercai di prestare attenzione a quel che John Kennedy stava dicendo: — … due persone. Il primo un poliziotto di Albuquerque più sveglio di quel che credevano loro. La seconda, una graziosa agente dell’FBI, in short aderenti e bicicletta, sulla collina dove altri di loro piantonavano il ripetitore della TV. Nessuno dei due ha avuto difficoltà a far chiacchierare gli uomini del nemico.
— Misure di sicurezza piene di buchi — si accigliò Hart.
— Piene di buchi le loro, e meglio per noi — disse John. — Comunque questi non hanno detto niente… o almeno non molto, circa questioni d’interesse militare. Ma sia il poliziotto sia la ragazza dell’FBI li hanno fatti parlare sulle differenze fra il loro mondo e il nostro. Penso che adesso abbiamo una discreta idea dei punti in cui la loro storia e la nostra divergono.
Mi sforzai di capire bene quel che John Kennedy disse poi. Non mi era facile. La mia cultura riguardava principalmente la musica, e al tempo in cui frequentavo la Juilliard il corso di storia non c’era neppure. Per questo mi restò arduo capire cosa intendesse per «linee temporali parallele», anche se Dom me l’aveva già spiegato. Come fatto reale era molto difficile da accettare.
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