24 Agosto 1983
Ore 4,20 del pomerìggio — Mrs. Nyla Christophe Bowquist
Avrei dovuto essere già in volo verso Rochester, per gli spot pubblicitari pre-concerto. Non ero stata capace di lasciare Washington. La giornata mi roteava attorno in una serie d’immagini folli, scoordinate, nebulose, e l’ora della partenza era passata senza che me ne accorgessi. Amy mi aveva prenotato un posto su un volo della sera, e le avevo detto di cancellare anche quello. Poi feci ciò che faccio quando mi sento disperata, confusa, stordita e preoccupata: mi esercitai sul violino. Misi nel registratore una cassetta con la parte per orchestra di un pezzo di Čajkowskij, tolsi l’audio al televisore acceso e cominciai a suonare in concerto. Ripetei l’esecuzione più volte, ma i miei occhi non si staccavano dalla TV che ogni venti minuti circa ripeteva la pazzesca trasmissione della sera prima, dove Dom — caro Dom, mio amato, mio amante, mio complice nell’adulterio! — sedeva con quell’untuoso sorriso sul volto e presentava quell’incredibile Presidente degli Stati Uniti, dicendo quelle cose incredibili. I programmi normali erano stati abbandonati, ma tutti continuavano ad occuparsi di quell’unica notizia. Le truppe straniere nel New Mexico tenevano saldamente l’area che avevano invaso, le nostre non le attaccavano, e a Washington nessuno voleva rilasciare dichiarazioni ufficiali.
Non ero la sola persona completamente disorientata e confusa in città, quel giorno. Perfino il tempo era incomprensibile: al largo della costa stava passando una specie di uragano, e i momenti di afoso sereno si alternavano a ondate di pioggia.
Il telefono cominciò a trillare. Jackie mi chiamò due volte, poi entrambi i Rostropovich, e il direttore di scena di Slavi, e poi l’anziana Mrs. Javits… e quindi tutti coloro che sospettavano che io avessi qualche interesse personale per il senatore Dominic DeSota. Prestarono grande attenzione a non dire nulla d’imbarazzante, e furono gentili come al capezzale d’un malato. Dopo le prime conversazioni cominciai a tagliare corto dicendo che non sapevo nulla, non ricordavo nulla, ero così confusa e no, durante la nostra ultima chiacchierata Dom non aveva neppure accennato alla Base di Sandia. Per fortuna non ci furono chiamate da parte della stampa. Il nostro segreto, la nostra vita privata, era momentaneamente al sicuro.
Dedicai qualche istante a compatire la povera Marilyn DeSota, seduta sotto la sua veranda, coi suoi telefoni che squillavano incessantemente, e che si stava domandando cosa accidenti e maledizione aveva combinato l’uomo che s’era preso per marito.
Sì, provai pena per la moglie del mio amante. E non era la prima volta. Però era la prima volta che ciò occupava più di mezzo secondo dei miei pensieri: tanto mi occorreva, di solito, per dirmi che dopotutto la responsabile dell’infedeltà di Dom era lei, e non io.
Comunque questo era quel che mi costringevo a pensare.
E Amy cominciò ad arrivare di continuo… con una tazza di tè, con importanti domande sul vestito che avrei indossato a Rochester, e per chiedere se non avevo dimenticato l’intervista con Newsweek per l’indomani mattina, e per riferire cos’aveva detto l’amministratore di Rochester quando aveva chiamato e io non avevo voluto parlargli.
Non avevo dimenticato di avere un concerto a Rochester, ovviamente.
In un certo senso stavo lavorando più duramente di quel che avrei fatto una volta sul palcoscenico. Stavano cercando di convincere Riccardo Muti a dirigere il concerto, e fra me e lui c’erano già state delle divergenze di opinioni. Gli avevo fatto sapere che avrei suonato Čajkowskij, e su questo s’era detto d’accordo, ma io intendevo eseguirlo senza i soliti tagli. Muti aveva incominciato a imprecare. Rochester adesso aveva difficoltà a ingaggiarlo. Be’… quello era l’uomo per loro, se riuscivano a ottenerlo. E una primadonna direttore non era il tipo che si adattava a dividere l’orchestra con una primadonna strumentista. Avevo sempre difficoltà di quel genere quando suonavo Čajkowskij, e di solito finivo per abbozzare. Ma stavolta non volevo farlo.
Così eseguii tutta la mia parte, due volte; bevvi un paio di tazze di tè e la suonai ancora.
Il guaio era che le mie dita viaggiavano con la musica, ma la mia mente era altrove. Che cosa stava facendo Dom? Non poteva almeno telefonarmi? Era possibile che quel pazzo progetto della Gasa dei Gatti, di cui mi aveva parlato, fosse una cosa in qualche modo reale ? E cosa ne stavo facendo della mia vita? Ogni tanto mi accadeva di pensare che se volevo davvero avere un bambino non sarebbe mai stato troppo presto per…
Ma con chi volevo avere un bambino?
Cercai di costringermi a pensare alla musica, mentre quei dolci, lussureggianti temi romantici fluttuavano dal mio Guarnerius. Čajkowskij aveva avuto i suoi guai. Con quel concerto, ad esempio. «Per la prima volta si deve credere nella possibilità che la musica puzzi agli orecchi», aveva commentato un critico alla Prima. Come si può vivere dopo una recensione del genere? Ma adesso era messo in repertorio come uno dei concerti più amati. La sua vita era stata molto più travagliata della mia, politica a parte… forse politica a parte, perché doveva certo esserci stato un sapore bizantino in quel destreggiarsi attorno alla corte dello zar. Col matrimonio gli era andata peggio di me, e il risultato era stata una separazione tempestosa. Per vent’anni aveva scambiato torride lettere d’amore con Najeda von Meck, senza mai dare alla poverina la soddisfazione d’incontrarlo una volta, e arrivando a fuggire dal retro della casa quando lei, inattesa, s’era presentata alla porta d’ingresso. Folle di un Peter Ilych! Si diceva che all’inizio desiderasse fare il direttore d’orchestra. Ma la cosa fu un fallimento, dato che cominciò a dirigere gli orchestrali tenendo la bacchetta nella mano destra e il mento stretto nella sinistra, perché misteriosamente s’era sviluppata in lui la convinzione che se non si afferrava il mento la testa gli sarebbe ruzzolata per terra. Pazzo Peter Ilych…
Sping! esplose una delle mie corde, la seconda che spaccavo quel mattino. Dopo un sospiro dovetti mio malgrado sogghignare, al ricordo di quel che una volta Ruggero Ricci mi aveva detto: «Uno Stradivari lo devi sedurre, ma un Guarnerius lo devi violentare». Solo che io lo stavo violentando troppo rudemente.
All’istante Amy si precipitò nella stanza. Non le domandai se stava origliando: naturalmente non aveva di meglio da fare. Le lasciai esaminare il violiono, e lei se lo studiò con estrema cura prima di cominciare a togliere la corda. — Meglio sostituirle tutte — suggerii, e lei annuì. Intanto che le tirava fuori dagli involucri tornai ai sogni a occhi aperti. Pazzo vecchio Peter Ilych, riflettei… solo che quel pensiero si modificò in «Pazza di una Nyla Bowquist, che ne stai facendo della tua vita?».
Mi leccai pensosamente i polpastrelli. Erano malridotti. Non stavano sanguinando: per arrivare alla carne viva dei polpastrelli della mia mano sinistra ci vorrebbe un rasoio. Però mi dolevano. Avevo dolori da tutte le parti.
Dissi: — Amy, dove credi che sia mio marito in questo momento?
Lei controllò l’orologio da polso. — In questo fuso orario sono le cinque. Laggiù sono un’ora indietro… suppongo che sia ancora in ufficio. Vuoi che te lo chiami?
— Sì, per favore. — Perfino quand’era un altro a pagare, Ferdie non era contento che lo chiamassi da lunga distanza, così avevamo ottenuto l’uso di una linea speciale. E Amy era speciale nel tenere a mente tutti i numeri di cui potevo aver bisogno. Riuscì ad avere la comunicazione in un paio di minuti.
— Era già uscito diretto al Club — disse, porgendomi il ricevitore. — L’ho raggiunto sul telefono della sua auto.
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