L’argomento del loro disaccordo aveva dei singolari punti in comune con il rompicapo dei missionari che devono traghettare il cannibale al di là del fiume. Ogni elicottero poteva portare cinque persone oltre al pilota. Noi eravamo in nove — nove cannibali — e con la guardia dieci. Ma dovevamo dividerci in due gruppi. Solo che nessuno dei due piloti voleva essere quello che avrebbe messo a repentaglio la pelle caricando cinque di noi maniaci sanguinari disperati senza una guardia a tutelarlo.
— Allora si fa così — gridò infine la sergente Sambok: — tu ne prendi quattro, tu altri quattro, e io terrò sotto sorveglianza il maledetto ultimo finché uno di voialtri torna indietro. — E dopo che i piloti ebbero grugnito il loro assenso, mentre la guardia e l’autista della jeep ci facevano salire a bordo, lei puntò un dito su di me.
— Questo lasciatelo da parte — stabilì. — Baderò io a lui fino al prossimo viaggio.
— Sissignora, sergente — belò uno dei soldati. — Ma il maggiore ha detto che…
— Muoviti! — ordinò Nyla. E loro si mossero. Quando furono tutti a bordo degli elicotteri lei si volse a considerarmi attentamente. I suoi occhi mi dissero che non costituivo un problema per una ragazza robusta e armata di un’efficiente carabina. Annuì fra sé. — Non ha senso restare qui a friggerci il cervello — disse. — Andiamo nel rimorchio.
Il carrozzone con le finestre aveva, benedetto lui, l’aria condizionata.
Era anche vuoto. All’apparenza era lì solo per essere usato dagli elicotteristi, e in quel momento costoro non c’erano. Mi fece entrare per primo, e salì soltanto quando fui a distanza di sicurezza. Poi si fermò in un angolo, con dita esperte si fece sgusciar fuori da una tasca due quarti di dollaro e me li porse. — Laggiù c’è un distributore di Coca Cola — disse. — Io sono…, occupata. Apritemi una lattina e mettetemela lì, sul tavolo. — E dopo un momento aggiunse: — Per favore.
Sedette e bevve un lungo sorso di Coca Cola, senza togliermi gli occhi di dosso. Io ricambiai il suo sguardo. Vista a tu per tu, senza nessun altro a distrarci nelle vicinanze, sembrava più identica che mai alla mia Nyla. Oh, certo, indossava qualcosa che lei non si sarebbe messa neppure ad Halloween per una festa in maschera. Ma davanti a me vedevo Nyla Christophe Bowquist.
Naturalmente non era lei. Era Nyla Qualcun Altro. Ma qualunque nome avesse sui documenti era bella e desiderabile come la mia Nyla, il che non era cosa dappoco. Non voglio dire sensuale, benché lo fosse in abbondanza. Il fatto è che c’era di più. Io la amavo. Amai lo sguardo fra perplesso e ironico che mi elargì. Amai il movimento con cui si appoggiò all’indietro, e che fece risaltare i suoi seni al punto che quella tuta da fatica mi parve più bella di un abito d’alta sartoria. E quando parlò amai il suono della sua voce.
— Cos’è questa storia, DeSota? Voglio dire, cos’è quello di cui mi stava parlando?
— Lei è una concertista, tutto qui. Una delle più grandi suonatrici di violino mai esistite.
— Ma non mi dica! Io sono un’insegnante di musica, Mr. DeSota. Ammetto d’aver sempre desiderato suonare con una grande orchestra. Però non l’ho mai fatto.
Scossi le spalle. — Ma ne ha la capacità potenziale — dissi, — perché nel mio universo questo è esattamente ciò che lei è. E c’è un’altra cosa che non le ho detto circa il suo doppione della mia linea temporale e… e me.
Mi gratificò di un’occhiata ironica. Se non borbottò la parola cosa ? furono le sue sopracciglia a dirla per lei.
— Noi siamo amanti. Io… io ti amo. Capisci?
Il suo sguardo da divertito si fece sorpreso, con una sfumatura di sospetto. Ma era ancora piuttosto caldo. Caldo per un tipo come Nyla, voglio dire, che era una specialista nel mostrare agli sconosciuti una maschera abbastanza gelida. Era anche lo sguardo con cui Rossana doveva aver considerato Cyrano de Bergerac, quando aveva scoperto che era stato lui, e non quell’ottuso bellimbusto di Cristiano, a scriverle le lettere d’amore. Poi disse: — Questa è una notizia che mi dà, DeSota.
— Non sto cercando d’imbrogliarti, Nyla.
Lei ci pensò su qualche istante, si guardò attorno e sorrise.
— Viste le circostanze — disse, — potrebbe benissimo essere come dice lei. Comunque parliamo di qualcos’altro. Ad esempio, perché ha nominato quel concerto di Gershwin? Morì giovane, dovrebbe saperlo. — Io scossi le spalle; non sapevo molto di lui. — Ha lasciato un sacco di buona musica — continuò lei, mentre io mi accostavo alla finestra per guardar fuori. — Tutta la musica popolare, naturalmente. Oltre alla Rapsodia in Blu , al Concerto in F, e l’ Americano a Parigi… ma, sul serio, non ha mai composto nulla per il violino.
Io stavo osservando il portale, più in basso, dove il Non-Realmente-Djugashvili stava operando su una consolle identica a quella che c’era dall’altra parte. Scossi il capo con decisione. — Ti sbagli, Nyla. Ti sbagli proprio. Non che io sia un esperto di musica classica, questo è certo, ma ho imparato qualcosa standoti attorno… attorno all’altra Nyla. Suonava spesso quel concerto per violino. È molto melodico, il che lo rende facile anche per un incompetente come me. Magari riesco a fischiettartelo… aspetta un minuto. — Camminai su e giù cercando di rammentare l’eccitante e piacevole tema d’apertura che Nyla eseguiva così bene nel suo assolo. Quando cominciai a fischiare seppi che non gli stavo rendendo giustizia, ma uno dei pregi della musica davvero bella è che non si lascia rovinare facilmente.
Lei si accigliò. — Non l’ho mai sentito. Ma è assai piacevole. — E sporse le labbra provando a fischiare a tempo con me.
Anch’io sporsi la labbra, quando mi chinai in avanti per baciarla.
Lei mi restituì il bacio.
O almeno fui quasi certo che me lo stesse restituendo. Potei sentire quelle soffici e dolci labbra aprirsi sotto le mie, ma non volli accertarmene. La colpii alla nuca col taglio della mano, con la stessa durezza che avevo appreso a usare al corso di judo.
Cadde sul pavimento come un sacco vuoto.
Quel genere di combattimento a mani nude era soltanto teoria per me. Non l’avevo mai messo in pratica fino ad allora, salvo che durante gli esercizi dove non si affondano i colpi. Né avevo programmato di farlo, benché una parte del mio cervello continuasse a dirmi che la divisa di Nyla e quella che avevano dato a me erano del tutto uguali, a parte il fatto che lei portava una fascia verde al braccio e una carabina, ed io non avevo né l’una né l’altra.
Quando la vidi abbattersi al suolo non potevo esser sicuro in alcun modo di non averla colpita troppo forte.
Ma allorché poggiai una mano su quel seno, così familiare al tatto come m’era estranea quella stoffa militare, potei sentire che il cuore e la respirazione erano del tutto normali.
— Mi dispiace, tesoro — mormorai. M’infilai sulla manica la sua fascia verde. Raccolsi la carabina dal pavimento, me l’appesi alla spalla, e uscii dal rimorchio senza più voltarmi indietro.
All’età di settantatré anni Timothy McGarren era il portiere notturno dei Lakeshore Tower Apartments. Era stato assunto lì il giorno dell’inaugurazione, lo stesso giorno in cui la direzione della metropolitana lo aveva messo in pensione, ovverosia dieci anni prima. Aveva fatto il percorso dal marciapiede esterno alla porta dell’ascensore tante di quelle volte che avrebbe potuto rifarlo dormendo, o camminando all’indietro. E in realtà lo faceva spesso. Quella sera, infatti, dopo aver tenuto aperta la porta per la vecchia e generosa Mrs. Spiegel, del 26-A, indietreggiò di sei passi. Esattamente fino alla base delle scale. Solo che le scale non erano lì a urtare il suo tacco destro come aveva previsto. Sbilanciato girò su se stesso, agitò le braccia, e precipitò senza un grido per quindici metri finendo nell’acqua con un gran tonfo. Quando riemerse, sputacchiando, ciò che vide furono le luci di Chicago che si specchiavano nel Lago Michigan, a cento metri di distanza da lui.
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