Quella fu la prima volta che vidi un portale. Non ci fu bisogno che mi dicessero di cosa si trattava. Era semplicemente una parete di tenebra pura che aleggiava nell’aria, così larga che riempiva l’estremità del locale quasi da un lato all’altro. Mi diede un brivido. Il colonnello Martineau sbottò: — Sergente! Esìgo di sapere che intenzioni avete!
— Sì, signore — fu d’accordo lei. — Un ufficiale vi informerà. Questo è per vostra maggiore comodità e sicurezza, signore.
— Merda secca, sergente!
Ma lei si limitò a ripetere: — Sì, signore — e si allontanò. Dopodiché lei non fu più lì a rispondere alle domande, e le guardie armate, ovviamente, non ci avrebbero dato altra informazione che le loro armi puntate.
La guardai attraversare il locale e raggiungere il mio vecchio e buon doppione maggiore Dominic, che stava discutendo presso uno dei macchinari con un individuo la cui vista mi lasciò un attimo stranito. Più che stranito. Sembrava un civile a disagio in una tuta da fatica militaresca, come me, e il suo profilo mi era familiare. Come me non aveva gradi; e come me non portava la fascia al braccio. Tuttavia non era un prigioniero, poiché era occupato alla regolazione di vari strumenti su un largo pannello. Il maggiore Dominic lo osservava da vicino, e sull’altro lato aveva un soldato con la carabina imbracciata. La sua guardia? E se aveva bisogno di una guardia, ma non era uno di noi, chi era?
Il maggiore me-stesso diede qualche ordine alla sergente Nyla. La ragazza annuì e tornò da noi. — Vi faranno attraversare fra un minuto — ci informò.
— Ehi, un momento, sergente! — ringhiò il colonnello. — Chiedo di sapere dove ci state portando!
— Sì, signore — disse lei. — L’ufficiale le spiegherà tutto.
Martineau sbuffò come un toro. Gli misi una mano su un braccio. — Lei è Nyla Christophe, non è vero? — dissi in tono discorsivo.
Sorpresa sbatté le palpebre. Per la prima volta parve vedermi come un essere umano, non come un pezzo di carne semovente da far spostare qua e là. La carabina che imbracciava anch’ella restò ferma; non era puntata esattamente verso di me, ma le sarebbe bastato girarsi un po’ di più per cacciarmela nell’ombelico. — Questo è il mio nome da ragazza — ammise, con cautela. — Mi conosce?
— Conosco la sua controparte del mio universo — dissi, e sorrisi. — Lei è la mia… uh, amica. È anche una delle più grandi violiniste del pianeta.
I suoi occhi avevano avuto un lampo di curiosità alla parola «amica», ma la sua attenzione s’accese di colpo quando dissi «violinista». Per qualche secondo mi studiò con interesse. Gettò una rapida occhiata al maggiore e tornò a fissarmi. — Di cosa sta parlando? — domandò.
Io dissi: — Zuckerman, Ricci e Christophe. Questi sono i tre violinisti al vertice del mondo della musica, oggi. In questo mondo, intendo. Ieri sera Nyla ha suonato con la National Simphony Orchestra davanti, fra gli altri, al Presidente degli Stati Uniti.
— La National Simphony? — esclamò. Io annuii. — Mio Dio — disse. — Io ho sempre sognato di… si sta prendendo gioco di me, Mr. DeSota?
Scossi la testa. — Nel mio universo lei è sposata a un proprietario di beni immobiliari di Chicago. Ieri sera ha suonato il Gershwin Violin Concerto , con la direzione di Rostropovich. Due mesi fa la sua foto era sulla copertina di People.
Lo sguardo con cui mi considerò era in parte stupito e in parte scettico. — Gershwin non ha mai composto un concerto per violino — affermò. — E cosa sarebbe People ?
— È una rivista, Nyla. Lei è famosa.
— Proprio così, sergente — brontolò il colonnello, che ci stava ascoltando con interesse. — Io stesso l’ho sentita suonare.
— Sì? — Era ancora scettica, ma l’idea la stava affascinando.
Accennai gravemente di sì. — E di lei che mi dice, Nyla? — chiesi. — Anche lei suona il violino?
— Lo insegno — disse. — O almeno, lo insegnavo prima d’essere richiamata in servizio.
— Ma sul serio? — esclamai, divertito. — E cosa…
E quello fu tutto ciò che potei dire. — Sergente Sambok! — chiamò un capitano, di fronte allo schermo nero. — Li porti fuori!
La pausa delle chiacchiere era finita. E di colpo tornò ad essere efficiente e professionale, la mia Nyla. Se tornò a posare gli occhi su di me fu con lo stesso interesse che l’uomo con la pistola a chiodi, in un mattatoio, può mostrare per il vitello in arrivo su per la rampa.
— Muovetevi, per favore — ordinò al nostro gruppo, e stavolta il «per favore» significava «senza discutere».
— Ascolti una cosa, sergente — cominciò il colonnello Martineau, ma lei ne aveva già abbastanza delle sue proteste. Fece un cenno con la carabina. Il colonnello mi gettò uno sguardo e scosse le spalle. Venimmo allineati l’uno dietro l’altro lungo una striscia gialla, dipinta sul pavimento così di recente che ci lasciai un’impronta. Di fronte al terribile buio del rettangolo ce n’era un’altra, orizzontale, simile allo «stop» della segnaletica stradale. Il capitano in attesa li davanti ci fece fermare, con un occhio su di noi e l’altro sul civile che m’era parso familiare.
— Quando vi darò il segnale — disse, — avanzerete dritti attraverso il portale, uno alla volta. Attendete finché non verrete chiamati: questo è importante. Sull’altro lato i vostri piedi si troveranno esattamente allo stesso livello di questo, perciò non abbiate paura d’inciampare o di qualcos’altro. Comunque di là troverete il personale di servizio pronto ad aiutarvi, se sarà il caso. Ricordate: uno alla volta…
— Capitano! — sbottò in un ultimo sforzo il colonnello Martineau. — Io esigo che…
— Lei non esige niente — lo rimbeccò l’altro, ma senza rudezza, anzi esibendo un’espressione paziente. — Quando sarà dall’altra parte ci sarà qualcuno a prender atto delle sue lamentele, se avrà lamentele da fare… signore. — Il tono di quel «signore» fu una via di mezzo fra l’ironico e l’indifferente, perché il capitano stava prestando assai più interesse al civile presso il pannello di comando che a quello che avremmo potuto dirgli noi.
Anch’io osservavo il suo operato con attenzione. All’apparenza era intento a mettere in sincronia diversi strumenti difficili da regolare, soprattutto due lancette a scorrimento verticale, una verde e una rossa, che sembravano muoversi di vita propria per non combaciare. Quando la rossa correva troppo, girava una manopola per riportarla indietro. Ma non ci mise molto a stabilizzarle alla stessa altezza, e si volse a mezzo verso di noi. — Mandateli avanti!
E la dottoressa Edna Valeska, dopo essersi voltata a gettarci un’occhiata supplichevole, assunse l’aria di chi sta pregando con fervore e s’incamminò verso la tenebra, dove semplicemente scomparve.
Io e gli altri sette sospirammo un’imprecazione all’unisono. — Il prossimo — ordinò il capitano. Toccava al colonnello Martineau. Lo vidi inghiottire dal buio senza lasciarvi più tracce di quante ve ne aveva lasciate Edna Valeska.
Io ero il successivo, nella fila. Mi fermai sulla linea, a un paio di metri dal misterioso tecnico civile, e solo allora, quando tornò a voltarsi, potei vederlo pienamente in faccia.
Sussultai. Aveva un’aria più efficiente, soprattutto molto più tormentata, ma era indubbiamente lo stesso uomo. — Lavrenti! — lo chiamai, stupito. — Tu sei l’ambasciatore Lavrenti Djugashvili!
La sua guardia mi fulminò con lo sguardo. — È impazzito? Non distragga il dottor Douglas!
— Aspetta un maledetto momento — protestò il civile. — Lei! Cosa stava dicendo?
— Djugashvili — ripetei. — Tu sei l’ambasciatore dell’Unione Sovietica, Lavrenti Djugashvili.
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