Frederik Pohl - L'invasione degli uguali

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L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos.
Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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Mi considerò senza troppo interesse. — Io non mi chiamo Djugashvili — disse, tornando ai pannelli di controllo. Regolò un paio di quadranti e si volse ad annuire al capitano, che mi fece avanzare fino al portale. — Ma quello era il nome di mio nonno — mi gridò dietro, proprio mentre penetravo nella parete di tenebra.

Quand’ero un ragazzo vivevo molte avventure con la fantasia, e queste riguardavano in particolare due campi. Uno erano i viaggi nello spazio. L’altro era il sesso. La ragione per cui avevo sognato di diventare uno scienziato (sogno che svanì quand’ero al secondo anno, al Lane Tech) stava nella possibilità di partecipare alle imprese spaziali. Non avevo esattamente rinunciato a quella fantasia; era stato il trascorrere degli anni a farla pian piano evaporare.

L’altra cosa non era di quelle che svaniscono. Avevo la più grossa collezione di libri porno del North Side. Quel genere di materiale non era ancora di libera vendita, ma c’erano posti in cui con due dollari potevate entrare e mettervi a sedere in una saletta fumosa, dove proiettavano filmetti in bianco e nero provenienti da Tijuana o dall’Avana (a quattordici anni non ero ancora sicuro che una donna potesse fare all’amore con un uomo senza indossare un paio di calze nere e una maschera). Vantavo avventurette inesistenti spacciando elaborate fandonie agli amici del club degli scacchi e della squadra di tennis, e pur avendo delle amiche la notte me ne andavo regolarmente a letto in bianco, com’è normale per ogni adolescente; ma con la fantasia costruivo in me lo scenario della perfetta seduzione: il negligé trasparente, la cenetta al lume di candela, le calze di rete…

E poi c’era stato quel Quattro Luglio. Peggy Hoffstader.

La casa dove abitava era abbastanza vicina al lago da poter vedere bene i fuochi artificiali, e quella sera sul tetto c’eravamo soltanto noi. M’ero dato da fare per ottenere due bottiglie di birra, che risultarono calde e di pessima qualità. E proprio quando i fuochi stavano esplodendo nel cielo per l’abbagliante finale, sentii una mano di Peggy poggiarsi in un posto dove fin’allora soltanto le mie s’erano posate, e seppi che adesso qualcuno stava chiamando il mio bluff. La fantasia era all’improvviso diventata realtà. Quel debutto mi trovò decisamente impreparato, ma del resto voi come ve la sareste cavata con tutte quelle braccia e gambe e bottoni e fibbie?

Fu una fortuna che Peggy conoscesse meglio di me certi particolari della faccenda. Per cavarmela ebbi bisogno di tutto l’aiuto che mi fu possibile ottenere.

Ma lì, adesso, non c’era nessuno ad aiutarmi.

Per quanto in modo diverso, stavo annaspando contro le stesse sconosciute, preoccupanti, sconvolgenti sensazioni. C’era un altro mondo sul lato opposto di quel sipario nero come la morte.

Trassi un profondo respiro, chiusi gli occhi, e ci camminai dentro.

A cosa potrei paragonare quella sensazione?

Forse non ci furono neppure sensazioni vere e proprie. M’era capitato un paio di volte di metter piede in quei laboratori sofisticati dove hanno porte fatte d’aria per separare i locali, correnti straliformi proiettate dal basso in alto, miste a vapor d’acqua che le fa sembrare tendine di nebbia. Erano così dense che potevano proiettarci sopra varie scritte e avvertimenti, attraverso i quali voi passavate con un fremito. Il transito oltre il portale che separava due universi non pretese dalla mia pelle neppure quel lieve brivido. Un momento prima ero nel seminterrato di un edificio, pieno di gente e di aria viziata, illuminato da impianti portatili di luci al neon…

Poi il piede che avevo spinto avanti toccò terra, e d’un tratto mi trovai sul fondo di uno scavo. Le mie scarpe poggiavano su un graticcio metallico, e in alto brillava l’infuocato sole di Agosto del New Mexico.

Intorno a me si levavano delle impalcature su cui erano piazzate apparecchiature dal curioso aspetto di grosse telecamere, che al posto delle lenti avevano antenne emisferiche da microonde. Dietro di esse c’erano tecnici che mi stavano osservando con indifferenza professionale. Tutto il perimetro era formato dalle pareti in pendenza dello scavo, con pagliolati che tenevano a posto la sabbia. Poco più avanti era in sosta un camion col motore acceso: il primo rumore che mi aveva colpito gli orecchi.

Non ebbi più di due secondi per studiare quella scena. Accanto a me c’erano due soldati, che mi presero per le braccia e mi spinsero avanti. — Sali sul camion — ordinò uno di essi, e tornò ad occuparsi del successivo prigioniero che vacillava fuori dal portale.

Mi arrampicai sul retro del veicolo, uno di quei massicci camion scoperti dell’esercito con le panche sui due lati, e ricevetti la regolamentare occhiata d’avvertimento da parte del soldato pigramente appoggiato alla cabina di guida, che puntava il mitra più o meno verso di noi. Appena fummo a bordo tutti e nove il motore ruggi, il veicolo s’avviò su per una rampa e sbucammo sul terreno sabbioso dirigendoci verso una piccola altura dalla cima piatta. Su di essa erano in attesa due elicotteri militari, coi rotori in moto che già giravano lentamente.

— Fuori — ordinò la guardia. Uno alla volta saltammo al suolo. Lui ci seguì, mentre l’autocarro si allontanava rombando. La guardia continuò a tenerci sottomira e sott’occhio, e camminando quasi all’indietro andò a scambiare qualche parola con il pilota di uno degli elicotteri. Noi ci guardammo l’un l’altro.

L’altura su cui ci trovavamo era spoglia e sabbiosa. Da li si poteva vedere, a un miglio di distanza, una serie di edifici tipici di una base militare piccola e isolata. La Sandia originale del nostro universo, mi dissi, doveva esser stata così. Sul bordo destro dell’altura su cui eravamo giunti c’era un lungo carrozzone privo della motrice, che dalle finestre supposi essere un ufficio, mentre presso lo scavo stavano altri grossi veicoli contenenti macchinari e generatori, dai quali grossi cavi scendevano fino alle apparecchiature sul fondo della fossa.

Stavo già grondando di sudore. Anche gli altri sbuffavano, ma eravamo troppo tesi per preoccuparci della calura. Edna Valeska mi diede di gomito. — Hanno dovuto scavare per portarsi al livello del seminterrato — disse, accennando alla fossa.

— Cosa?

— Avevano già progettato di sbucare nello scantinato dell’edificio — ripeté lei. — Ma qui non c’era nessun edificio. Così hanno dovuto scavare.

— Ah, certo. — Non mi sembrava importante. A dir la verità la mia testa era un guazzabuglio di riflessioni, e non sapevo neppure quale fosse importante e quale no. Riuscivo a scorgere anche il grosso rettangolo nero, e ne vidi uscire altre due persone: la sergente Nyla e l’uomo che sembrava, ma che aveva detto di non essere, Djugashvili. Scambiarono qualche parola, poi Nyla gli volse le spalle e salì su una jeep.

— Che ne pensate di quelle impalcature? — chiesi.

— A occhio e croce — rispose la dottoressa Valeska, — è la loro soluzione ai problemi di posizione. Dovevano spiarci, penetrare nei laboratori. Alcune di quelle impalcature corrispondono, direi, all’altezza dei pavimenti del nostro primo piano.

Sembrava razionale, anche se l’intera faccenda aveva aspetti che mi riusciva difficile accettare come reali e razionali. Uno degli scienziati più giovani mise il dito sulla piaga: — Secondo voi cos’hanno intenzione di farci? — chiese, con voce tremula.

Nessuno aveva una risposta da dargli. Il colonnello Martineau si avvicinò. — Penso che la sergente ce lo farà sapere, adesso — borbottò, mentre sollevando una nuvola di sabbia la jeep veniva a fermarsi accanto a noi.

Lei non ci disse nulla… o almeno, non direttamente. Appena balzata a terra era andata a parlare coi piloti dei due elicotteri. «Parlare» è un eufemismo, perché dopo qualche istante costoro cominciarono a discutere accanitamente, e non si preoccupavano certo di tener la voce bassa. Nyla li stava facendo incavolare.

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